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Chi vaneggia nei giornali su Isis e Bangladesh

Preso fra l’orrore di Dacca, dove nove italiani sono stati atrocemente sgozzati dai soliti terroristi del Califfato, che si rifanno vigliaccamente delle sconfitte militari sul campo con civili colpevoli di non saper recitare il Corano, e la delusione di Bordeaux, dove i tedeschi hanno buttato fuori gli azzurri con i rigori dai campionati europei di calcio, ho sfogliato con una certa apprensione i giornali. Curioso di vedere di che cosa sarebbe stata capace l’abitudine, purtroppo, di solleticare il peggio che c’è nella pancia del pubblico, anziché il meglio del cervello, sono rimasto sorpreso solo del mancato autolesionismo, una volta tanto, di fronte alla sconfitta della Nazionale di Antonio Conte. Di cui è stato unanimemente riconosciuto il valore che si è ugualmente guadagnato sul campo francese.

Sulla strage di Dacca, sulla lunga notte d’angoscia e di lavoro vissuta a Palazzo Chigi da Matteo Renzi, sul suo appello tanto rituale quanto inutile – temo – all’unità nazionale, e quindi ad una rinuncia alle solite chiacchiere e recriminazioni, le cattive previsioni non sono state smentite. E purtroppo questa volta le prove peggiori, almeno per i miei personalissimi gusti, sono giunti dai giornali che hanno rinunciato da qualche tempo tempo, diciamo pure troppo tempo, alle loro tradizioni moderate per coltivare e diffondere ben altra cultura, se la si può ancora chiamare così.

Sul Giornale che fu di Indro Montanelli, per esempio, non hanno avuto alcuna esitazione ad attribuire alla pratica di “un’accoglienza senza regole” l’origine degli aguzzini di Dacca, con chiara allusione ai temi della politica interna italiana, come se quegli assassini fossero arrivati in Bangladesh da qualche città italiana. E ad inneggiare alla Brexit, cioè alla saggezza e al coraggio di quegli inglesi che hanno deciso l’uscita del loro paese dall’Unione Europea non sentendosi “protetti e rappresentati da questa Europa” evidentemente mollacciona, incapace di alzare tutti i muri necessari, magari anche sulle acque, per respingere i barbari in arrivo su gommoni e pescherecci in disuso. Come se il problema della difesa dal terrorismo islamista fosse tutto e solo questo.

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Ugualmente semplificatorio mi è apparso francamente, sempre sul Giornale che fu di Montanelli, e di Guido Piovene, il discorso contro l’abitudine di “fare affari con paesi che finanziano il terrorismo islamico”. Il problema, certo, c’è ma non è né nuovo né solo italiano.

Con l’Arabia Saudita, per esempio, tanto per non fare nomi, non è solo l’Italia di Matteo Renzi a cercare e a fare affari, guidando folte delegazioni d’imprenditori, pubblici e privati, felici magari di abbandonarsi a scomposte risse per accaparrarsi costosissimi regali come orologi, collane, spille e penne.

Più che i nostri malandati e modesti affari, sono quelli degli americani, dei francesi e magari anche dei tanto elogiati inglesi che dovrebbero preoccupare per i vantaggi che potrebbero derivarne anche al Califfato.

Non ho poi parole, credetemi, per commentare da una delle tante spiagge italiane percorse dai vù cumprà la spiegazione, diciamo così, al minuto o al dettaglio data da Libero Quotidiano a quel titolone gridato in prima pagina “Paghiamo chi ci uccide”. Al minuto o al dettaglio, perché il commercio che tanta allarma e scandalizza il giornale tornato sotto la guida di Vittorio Feltri è quello dei “bengalesi che vendono fiori e orologi”: quelli taroccati, a qualche decina di euro più o meno scontati, non quelli d’oro vero che distribuiscono nei palazzi regi e di governo d’Arabia e dintorni a chi ne è già provvisto di suo.

Ai bengalesi alle prese con i bagnanti seguono naturalmente, nell’elenco dei potenziali assassini di casa o d’esportazione, i frequentatori delle moschee e dei kebab.

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Se questo è il livello della nostra cultura moderata, stiamo freschi, per giunta fuori stagione, visto il caldo che ci propina in questo periodo madre Natura. E’ un livello di fronte al quale persino i vaffa di Beppe Grillo e gli sproloqui degli altri pentastellati riescono ad assumere una loro dignità. E a spiegare anche le ragioni per le quali i loro candidati alle elezioni amministrative di giugno, in particolare nei ballottaggi comunali di Roma e Torino, sono riusciti a prevalere così bene e clamorosamente con l’aiuto di tanti elettori di quello che fu il centrodestra.

E nell’ex centrodestra c’è stato persino chi se n’è vantato: dall’incontenibile seppure ammaccato Matteo Salvini all’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa e al capogruppo forzista alla Camera Renato Brunetta. Tutti contenti, naturalmente, di aver dato la lezione che meritavano a quei pericolosi rivoluzionari, e forse anche filoislamisti, Roberto Giachetti a Roma e Piero Fassino a Torino. Ma soprattutto a chi ne sosteneva l’elezione come segretario del loro partito: l’odiato, anzi odiatissimo Matteo Renzi, il “royal baby” di quel pazzo, evidentemente, di Giuliano Ferrara. O l’ospite che Fedele Confalonieri sogna di avere a cena, se non vi ha già cenato mandando il conto a Silvio Berlusconi, magari felice in cuor suo di pagarlo dalla stanza dell’ospedale che si accinge a lasciare, anche se non lo può dire al vecchio e nuovo cerchio magico.

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