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La settimana delle scuse interessate di Lochte, Trump e Clinton

Donal Trump

La weekly newsletter del sito Quartz definisce la settimana appena conclusa quella perfetta per “chiedere scusa” e riprende quattro casi espliciti in cui i protagonisti hanno pubblicamente fatto ammenda (più o meno) delle proprie colpe negli ultimi sette giorni: il nuotatore Ryan Lochte, Donald Trump, la Clinton Foundation e il dipartimento di Stato americano. Con ordine ci si ritornerà caso per caso, ma intanto, seguendo la linea di Quartz, “la pubblica contrizione è un buon segno?” Nel quarantesimo anniversario di “Sorry seems to be the hardest world” di Elton John, il sito americano sostiene che molto spesso chi chiede scusa lo fa perché pensa che il costo sia minore nel farlo che nel non farlo: ossia, lo si fa per interesse. A supporto, uno studio pubblicato sulla Harvard Business Review nel 2006, secondo cui  le scuse dei leader sono tutte frutto di un ponderato ragionamento di convenienza. Venendo al dunque, tralasciando il caso minore di Lochte, il nuotatore olimpico americano che aveva denunciato di essere stato derubato a Rio, ma sembra che ci sia un video di una telecamera di sicurezza che incastra lui e alcuni compagni, colpevoli di aver fatto eccessiva baldoria per cui lo stesso atleta ha poi ammesso (una volta rimpatriato) di aver raccontato la vicenda non troppo candidamente, i tre casi principali.

LE SCUSE DI TRUMP

Dopo aver rimescolato per la seconda volta in pochi mesi la leadership del proprio comitato elettorale, Donald Trump si è quasi scusato, o meglio quasi dispiaciuto, per alcune sparate dei giorni precedenti; “Un Trump dispiaciuto cambia registro con 107 giorni di ritardo”, era il titolo di Politico, che becca la sintesi migliore. Lo ha fatto in un discorso letto dal gobbo elettronico a Charlotte, in North Carolina; è probabile che prossimamente lo vedremo sempre più assumere questo atteggiamento estetico più presidenziale, secondo le direttive del nuovo boss della campagna, il presidente di Breitbart News Stephen Bannon, che ha rimpiazzato operativamente Paul Manafort, capo della campagna dimessosi giovedì forse anche per non far pesare sul candidato repubblicano gli sviluppi legali di un’inchiesta giornalistica del New York Times che lo vede coinvolto in un network di pagamenti in nero da parte del partito dell’ex presidente dispotico ucraina Victor Yanucovich, di cui fu consulente per anni in passato. Trump a Charlotte ha detto: “Come sapete, non sono un politico. Sono un imprenditore, ho passato la mia vita adulta a creare posti di lavoro e costruire cose. Non ho mai voluto usare il linguaggio degli iniziati e non sono mai stato politicamente corretto”, spiegando dunque che le scuse per alcune uscite forti (per esempio quelle contro i genitori musulmani di un soldato americano morto in Iraq, le dichiarazioni sulla possibilità che le elezioni siano truccate, la posizione sulle violenze sessiste nei posti di lavoro) sono frutto del suo carattere e della sua spiccata propensione a dire “sempre la verità” – sua interpretazione. E alla fine più che scuse sono state un modo per rafforzare la propria posizione anti poll-corr, che piace molto al suo elettorato anti-establishment.

LE MANI AVANTI DELLA CLINTON FOUNDATION

Ogni presidente americano dopo la fine del suo mandato crea una libreria e un fondazione: Bill Clinton non è escluso da questa prassi, e ha creato la libreria a Little Rock, in Arkansas e un fondazione che nel corso degli anni ha raccolto circa due miliardi di finanziamenti da privati e enti per sovvenzionare le politiche filantropiche che cerca di portare avanti (lotta all’Aids, sensibilizzazione sui cambiamenti climatici, tra le varie cose). Sia Bill che Hillary, che la figlia Chelsea, hanno lavorato per la fondazione, che ha ricevuto anche diverse donazioni da politici e fondi esteri, per esempio quelli dei governi dell’Oman, dell’Arabia Saudita, del Kuwait e degli Emirati Arabi Uniti, oppure Goldman Sachs, Coca Cola e Blackwater, una società che riceve appalti dal dipartimento di Stato e fornisce contractors militari. Ora il punto è il seguente: Hillary, che ha sviluppato un network di contatti piuttosto stretto con questi ed altri finanziatori della fondazione, potrebbe subirne influenze nella sua azione politica futura? Oppure, visto che ha lavorato alla fondazione sia prima che dopo il suo incarico di segretario di Stato, ne ha già subito quelle influenze? Ci sono segnali, per esempio alcuni contatti avuti da Huma Abedin, consulente dei Clintons (vice chairwoman della campagna del 2016) e impiegata della fondazione, con funzionari del governo per facilitare un incontro di un donatore nigeriano di origini libanesi con l’ambasciatore americano in Libano: roba non illegale, ma potenzialmente compromettente. La Clinton Foundation sembra insomma di essere un bubbone che rischia di infettare l’intera campagna “Clinton 2016”, dove sulla candidata pesa un’immagine non nitida che non riceve la fiducia completa dell’elettorato. Per questo i vertici della fondazione hanno annunciato la scorsa settimana che nel caso Hillary diventasse presidente non riceveranno più donazioni straniere e Bill si dimetterà dal consiglio di amministrazione: il rischio è che dai server, attaccati nei mesi passati dagli hacker, possano uscire migliaia di mail compromettenti, non illeciti, che intaccheranno ulteriormente l’immagine di Clinton. Più che scuse, dunque, una valutazione dei rischi e un gioco di anticipo.

L’AMBIGUA SPIEGAZIONE DEL DIPARTIMENTO DI STATO

C’è una storia che in questi giorni imbarazza molto il governo americano, su cui Trump è già passato sopra con il bulldozer e forse ci ripasserà adesso che il Wall Street Journal ha rivelato altre informazioni: il 17 gennaio l’Iran rilasciò dei prigionieri americani detenuti in carcere con accuse fumose e poco consistenti e ci sono polemiche sul fatto che l’amministrazione abbia pagato in cambio della liberazione, facendo passare il pagamento come il saldo di una clausola su una vendita di armi non andata a buon fine che risaliva agli anni Settanta. Secondo il WSJ questo pagamento sarebbe avvenuto in contanti per non essere tracciato: totale per un ammontare di 400 milioni in monete di vario taglio ma non dollari (euro e valute europee), e l’aero cargo che doveva portare il malloppo a Teheran pare sia restato fermo sulla pista finché i tre americani non sono stati rilasciati dall’Iran. Se così fosse, tutto assomiglierebbe al pagamento di un riscatto, che è contro le politiche in materia professate dagli Stati Uniti, che non scendono a compromessi per evitare il ripetersi di rapimenti e arresti di propri concittadini da parte di stati canaglia o gruppi terroristici; questa politica è costata la vita ai vari americani vittime delle esecuzioni video dello Stato islamico, per esempio, a cominciare da James Foley. John Kirby, il portavoce del dipartimento di Stato ha spiegato in conferenza stampa che quello non era il pagamento di un riscatto, ma un’operazione a sé stante, e che l’Iran aveva “deciso deliberatamente” di liberare i prigionieri. Due cose distinte. Però ha anche detto a proposito del cargo pieno di soldi liquidi che “abbiamo pensato che sarebbe stato imprudente non considerare di giocare qualche influenza nel tentativo di assicurarci che il ritorno dei nostri americani riuscisse”. Tutto è avvenuto con sullo sfondo la firma dell’accordo sul nucleare iraniano, che ha avuto critiche per l’atteggiamento troppo permissivo di Washington; figurarsi le critiche per l’eventuale riscatto. Trump, in una delle uscite per cui s’è scusato a Charlotte, aveva detto di aver visto il video di quell’aero e di quei soldi, ma non esiste nessun video, tanto che la sala stampa della campagna si era prodigata in precisazioni che alla fine avevano comunque una sola e chiare verità: il candidato presidenziale repubblicano aveva sfacciatamente mentito. Ora però le nuove info potrebbero essere un terreno fertile per la sua retorica, e forse per questo il dipartimento di Stato ha deciso di giocare di anticipo cercando di fare una qualche chiarezza sul caso.

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