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Vi racconto le astute piroette di Berlusconi che spiazzano Brunetta

Qualcuno deve avere finalmente avvisato Renato Brunetta che la musica è cambiata, o sta cambiando, a casa di Silvio Berlusconi e dintorni.

Il capogruppo forzista della Camera ha smesso di dire che il presidente del Consiglio “deve guadagnarsi la solidarietà” offertagli con quel “Forza Renzi”  in prima pagina sul Giornale della famiglia Berlusconi  dopo il terremoto in Centro Italia. Egli ha smesso, in particolare, di chiedergli –come in una lunga e ribalda intervista a ItaliaOggi di qualche giorno fa- una preventiva presentazione alle Camere col capo cosparso di cenere per le condizioni economiche e sociali del Paese e un discorso “di verità “, al limite delle dimissioni.

Ora Brunetta ha ripiegato sull’orgogliosa rivendicazione della “diversità” della sua parte  politica dalla sinistra. Che sette anni fa dopo il terremoto all’Aquila aggredì l’allora governo Berlusconi. Noi –ha praticamente detto l’ex ministro- non ripagheremo con la stessa moneta.

Il capogruppo forzista ha evidentemente capito che l’ex presidente del Consiglio è davvero convinto e pronto a dare una mano al suo giovane successore nell’emergenza sismica, anche se a Renzi capitasse di perdere il referendum di fine novembre sulla riforma costituzionale. Un referendum che vede sì Forza Italia schierata sul fronte del no, ma di un no definito da Gianni Letta per conto di Berlusconi “intelligente”, diverso quindi da quelli evidentemente stupidi di leghisti, meloniani, grillini, dalemiani, vendoliani, magistrati democratici, nel senso di aderenti all’omonima corrente, e altra sinistra sparsa.

 

Le intenzioni attribuite, per esempio, da Repubblica all’ex presidente del Consiglio, con un articolo di Tommaso Ciriaco e richiami alla figlia Marina, oltre ai soliti Fedele Confalonieri e Gianni Letta, di dare una mano a Renzi anche in caso di sconfitta referendaria nascono un po’ dalla paura che una crisi di governo destabilizzi troppo il Paese e favorisca la sinistra all’interno del Pd e i grillini all’esterno, e un po’ dalla convinzione che al centrodestra, o a quel che ne rimane, convenga più un Renzi indebolito che un Renzi rovesciato.

Senza arrivare a “nuovi patti”, che si è affrettato a smentire forse per risparmiare infarti ai più agitati dei suoi, Berlusconi da un Renzi indebolito potrebbe ricavare in effetti un maggiore potere contrattuale nella prevedibile riforma della legge elettorale. Specie se questa dovesse perdere qualche penna nell’esame che l’attende in ottobre alla Corte Costituzionale su istanza di due tribunali ordinari. Da un Renzi rovesciato invece il presidente di Forza Italia potrebbe ricavare un’accelerazione della corsa alle elezioni, mentre il progetto di una riorganizzazione del centrodestra, attorno a Stefano Parisi o ad altri se il mancato sindaco di Milano dovesse per qualsiasi motivo impantanarsi nella missione, avrebbe bisogno di tempo. Magari, di tutto quello che manca alla conclusione ordinaria della legislatura, nel 2018.

Nelle more dell’attesa potrebbe anche maturare il giudizio negativo della Corte Europea che Berlusconi attende a carico della legge e della sentenza che lo hanno reso ineleggibile, anzi incandidabile. E lui la voglia di tornare in Parlamento, se non anche a Palazzo Chigi, ce l’ha ancora, pur con l’età si porta ormai addosso e con la prova che ha dato dall’autunno del 2013, quando decadde da senatore, di poter contare politicamente e mediaticamente anche senza la medaglietta parlamentare. E ora anche senza più possedere il Milan, le cui fortune e coppe contribuirono certamente a favorirne una ventina d’anni fa l’improvvisa e travolgente ascesa politica: ascesa, altro che “discesa”, come lui disse pensando al solito campo da gioco dove di una squadra di calcio si dice, appunto, che scenda.

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Di Berlusconi tutto francamente si può dire, anche per criticarlo, come spesso si è meritato per errori doppiamente imperdonabili, in sé e per le strumentalizzazioni giudiziarie cui si prestavano in Procure e tribunali un po’ troppo impegnati ad occuparsi di lui, ma non che sia un uomo prevedibile, scontato. Dalla politica, pur declassata a “teatrino” nel salotto di Arcore e nei comizi, egli ha imparato subito la mobilità o imprevedibilità, quella capacità cioè di sorprendere o, se preferite, di spiazzare gli altri.

 

Nessuno, per esempio, credeva nel 1995 che sarebbero bastati cinque anni perché Berlusconi tornasse a parlare con Umberto Bossi e poi ad allearsi, dopo la clamorosa rottura che si era consumata fra loro. Con un Bossi nel frattempo corteggiato dai post-comunisti come “una costola della sinistra” – disse Massimo D’Alema a un congresso della Lega – e gratificato di una riforma del titolo quinto della Costituzione improvvisata dal secondo governo di Giuliano Amato per ampliare, purtroppo rovinosamente, le competenze delle regioni nel nome del federalismo di marca leghista.

La rottura col governo di Enrico Letta, dove l’allora Pdl era persino sovrarappresentato, avvenne nell’autunno del 2013 pochi giorni dopo che Berlusconi in persona lo aveva salvato in una votazione di fiducia al Senato, sostituendosi all’ultimo momento al capogruppo Renato Schifani, incaricato di annunciare, per quanto malvolentieri, il passaggio all’opposizione.

Sorprendente fu anche il successivo “Patto del Nazareno” con Renzi fresco di elezione a segretario del Pd e lanciato verso Palazzo Chigi, anche se l’allora sindaco di Firenze aveva nei mesi precedenti cavalcato nel suo partito più ancora di Enrico Letta la causa della decadenza dell’ancora Cavaliere dal Senato con l’applicazione retroattiva della cosiddetta legge Severino, e con votazione a scrutinio palese, per una condanna definitiva per frode fiscale. Che era stata emessa dalla sezione feriale della Cassazione rincorrendo i termini della prescrizione. Una sentenza peraltro opposta a quella riservata ad un caso analogo.

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D’altronde, che Berlusconi, a dispetto del “teatrino” cui la declassava, avesse imparato rapidamente la mobilità o flessibilità della politica gli fu riconosciuto pochi anni dopo il suo esordio da un professionista del ramo come l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che aveva saputo trasformare a sorpresa il Quirinale, negli ultimissimi anni del suo mandato, da officina di manutenzione e tutela delle istituzioni a officina de demolizione. Dove il capo dello Stato – ripeto, il Capo dello Stato – si compiaceva di muoversi brandendo il piccone, non certo la colla o il cacciavite.

Ospite di Berlusconi e dei familiari nella villa di Porto Rotondo, Cossiga gli diede una volta del “Maestro”. E lui se ne compiacque, mi raccontò il presidente emerito soffermandosi in particolare sulla soddisfazione della madre, Rosa Bossi, ancora viva in quell’estate.

 

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