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Cosa fanno Stati Uniti e Russia in Siria?

È ormai chiaro che la tregua in Siria regge soltanto nella mente di alcuni alti funzionari americani (John Kerry, segretario di Stato: “La tregua non è morta”; John Kirby, suo portavoce, “la Russia chiarisca la sua posizione” e andiamo avanti). Sul campo i combattimenti sono ripresi dalla serata di lunedì, che invece doveva essere il giorno in cui, dopo una settimana di calma – che in realtà non c’è stata – Stati Uniti e Russia avrebbero implementato l’accordo temporaneo, aperto a una collaborazione operativa contro i gruppi jihadisti e spianato la strada per la chiusura negoziale della crisi. Ma proprio in quelle ore, il regime siriano annunciava di far saltare tutto perché non sosteneva più le continue violazioni dei ribelli. Ha lanciato dei pesanti bombardamenti sull’area che non controlla di Aleppo, l’ultima potentissima serie martedì notte e un’altra annunciata per i prossimi giorni (è sempre così: quando un cessate il fuoco finisce i combattimenti riprendono con maggiore violenza), e la Russia, che nello schema creato dall’intesa con Washington aveva il compito di controllare Damasco – gli Usa dovevano fare lo stesso con le opposizioni – ha fatto sapere di non biasimare troppo il regime (a proposito di “chiarire la propria posizione” come chiedeva Kirby). A poco sono valse le accuse aperte scagliate contro Bashar el Assad dal segretario generale dell’Onu durante la plenaria (è lui il maggiore responsabile delle morti in Siria, ha detto Ban Ki Moon: per chiarezza, è vero, i dati dicono questo).

GLI USA ANNASPANO

Kerry cerca di andare oltre al tremendo crimine che ha di fatto squarciato la tregua e rilanciare un “secondo round” della tregua: l’attacco contro il convoglio umanitario dell’Onu. Gli americani sono sicuri che sarebbero stati i russi a compiere l’azione, insieme con elicotteri governativi: funzionari dell’intelligence hanno detto al Wall Street Journal che la sorveglianza aerea dei radar americani ha individuato due Su34 russi sull’area del bombardamento (una cittadina a est di Aleppo), proprio nelle stesso momento in cui è avvenuto; e ci sono anche le immagini di un drone russo che ha ripreso il convoglio, dunque Mosca ne conosceva il percorso. Il sito specializzato Bellingcat ha fatto una lunga ricostruzione dell’accaduto tramite fonti open source e ha concluso che la Russia deve necessariamente essere stata coinvolta: ci sono crateri e frammenti visibili riconducibili ad un attacco aereo, in alcuni video si sentono passare jet, c’è quello che sembra il cluster di coda di una bomba russa OFAB 250-270, ci sono le testimonianza dei sopravvissuti. I russi dicono che invece è successo qualcosa a terra, diffondono video sulla presenza di truppe dei ribelli, ma chi era a terra (per esempio gli uomini della Mezzaluna, che si occupavano del trasporto) dice che c’è stato un attacco aereo: da qui la versione è cambiata, hanno fatto riferimento a un Predator americano intercettato sull’area, hanno detto che velivoli del genere potevano compiere attacchi di precisioni, senza però giungere a conclusioni. Gli aiuti umanitari in Siria sono stati per lungo tempo un arma di ricatto, praticamente militare: il regime li ha bloccati molte volte per affamare le popolazioni assediate, stavolta sembrava che potessero passare dopo uno stallo di qualche giorno al confine turco, e Kerry aveva accolto la notizia come un segnale positivo del procedere della tregua. Come è andata a finire s’è detto.

LA NO-FLY ZONE

C’è una  novità con cui l’America vuole cercare di ridare vigore al processo (anche Boris Johnson, il ministro degli Esteri inglese, seppur accusando regime e sponsor per le violazioni, ha detto che il processo potrebbe essere “rianimato”): una volontà in piedi nonostante sia stato lui stesso a commentare quel “vivono in un mondo parallelo”, a proposito delle contro accuse alzate da Mosca per la vicenda del convoglio Onu. Kerry ha proposto la creazione di una no-fly zone sulla Siria, la quale dovrebbe garantire che certi enormi pasticci non si verifichino almeno durante il passaggio dei prossimi convogli umanitari; “prossimi” perché una quarantina di camion sono tenuti fermi a nord di Aleppo dalle volontà del regime, che non dà autorizzazione all’ingresso. Dai pasticci però non è possibile escludere quello combinato dagli americani: una formazione di caccia alleati (c’erano anche australiani e danesi) sabato ha colpito una postazione dei governativi nell’area di Deir Ezzor, uccidendo almeno sessanta lealisti. E questo è stato un primo grosso colpo sull’incrinarsi della tregua. Creare una no fly zone è una questione molto complicata: per esempio, se dovessero decollare elicotteri del regime, chi si occuperebbe di farli rientrare? E se non rispondessero alle chiamate di alt? E se si dovessero verificare problemi con caccia americani diretti contro lo Stato islamico? È una questione delicata, ed è per questo che nonostante sia in discussione da tempo (per esempio, Hillary Clinton è una sostenitrice di questa soluzione) è stata sempre lasciata in secondo piano. Il corrispondente diplomatico della BBC Jonathan Marcus, pensa che potrebbe anche essere un bluff, usato da Kerry per farsi assicurare da russi e siriani che non lanceranno altri attacchi.

LE ARMI AI CURDI

Chi sarebbe felice è di certo la Turchia, che è il paese che più di tutti gli altri ha battuto sulla necessità di bloccare i voli per lo meno sulla fascia settentrionale del paese, ossia vicino ai propri confini. E forse, a ricostruire linee di retroscena, l’annuncio del capo della diplomazia americana ha anche un valore di bilanciamento. Scrive il New York Times che l’Amministrazione starebbe pensando di inviare direttamente armi di piccolo calibro e munizioni (niente anticarro e contraeree) ai curdi siriani delle Ypg, che combatto al nord in alleanza ad altre formazioni arabe e siriache in un raggruppamento che prende il nome di Syrian Demorcatic Force. Quelle armi servirebbero per rilanciare la campagna su Raqqa, seconda città più grande ancora in mano al Califfato. Sembrerebbe che Barack Obama, in scadenza di mandato, voglia accelerare le operazioni per lanciarsi contro la roccaforte siriana dell’IS; la crisi siriana vive di un dualismo, da un lato la guerra civile, dall’altro la lotta contro lo Stato islamico e la fazione qsedista ex Nusra, e questi due aspetti a volte vanno in sovrapposizione. C’è un problema. Armare i curdi significherebbe mettersi di traverso rispetto alle volontà della Turchia: Ankara ha una missione avviata al nord siriano, alla quale partecipano anche un paio di dozzine di forze speciali americane, per eliminare lo Stato islamico da quelle aree e bloccare l’espansione dei curdi, che i turchi considerano un gruppo terrorista per via dei legami con il Pkk. Uno dei maggiori argomenti di attrito tra Turchia e Stati Uniti è proprio l’uso che gli americani fanno delle Ypg: sono forze fedeli, anche se perseguono una propria agenda indipendentista, che si sono dimostrate valide e affidabili sul campo, tanto che la Casa Bianca li ha da tempo affiancati con team di forze speciali via via incrementati fino a raggiungere il numero di 300. Gli Usa si fidano di loro, e li ritengono un alleato quasi imprescindibile, anche se hanno dovuto limitarli per via di riallacciare i rapporti con i turchi, incrinati dopo il fallito colpo di stato. Due settimane fa, Ankara aveva proposto a Washington di coordinare una campagna su Raqqa, a patto però che la strategia non includesse i curdi: ora trapela la possibilità di armarli invece quei curdi, e forse il lancio della no fly zone assume un ulteriore significato politico.

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