Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Gli Stati Uniti non controllano i ribelli in Siria, e Mosca ci fa politica

Il principale argomento di scontro usato dalla Russia per fare pressione politica sugli Stati Uniti è l’incapacità di Washington di avere il controllo completo dei propri partner in Siria. È il motivo della rottura diplomatica in corso, questione che ha assunto i toni ben poco diplomatici con cui funzionari di vario livello del Cremlino, su su fino ai ministri di Esteri e Difesa, hanno più o meno apertamente accusato gli americani di dare sostegno al terrorismo. È una denuncia non realistica, ma che trova campo fertile: Mosca parte dall’assunto che in Siria ci sono i terroristi, come lo Stato islamico e altri gruppi combattenti (il principale gli ex qaedisti di al Nusra), poi ci sono i gruppi ribelli considerati moderati, ma quando uno di questi ultimi si allea con gli altri, allora diventa una fazione terroristica. Se questa è la tesi di partenza sostenuta dai russi, l’assioma diventa: se uno dei gruppi che l’America sostiene si allea con una delle realtà che rifà le proprie istanza al radicalismo jihadista, allora vuol dire che implicitamente Washington sostiene dei terroristi.

PALADINI DELL’ANTITERRORISMO…

È una linea teorica grossolana, che Mosca usa molto per spingere la propria propaganda, ma che non trova riflesso nella logica della guerra (ci si tornerà). I russi vogliono dipingersi a livello globale come gli unici che combattano il terrorismo tout court, senza collusioni, senza imbarazzi, senza compromessi – tutto relativo, visto che hanno alleati indiretti tra gli Hezbollah e tra le milizie sciite filo-iraniane. È una ricerca mediatica quella del Cremlino, che parte dalla Siria (e quale occasione migliore, d’altronde) per arrivare fino al resto del mondo; per esempio, il capo militare delle forze di opposizione al progetto governativo dell’Onu in Libia, Khalifa Haftar, parla della Russia, sua alleata, come il più serio nemico del terrorismo globale. In questo c’è anche una certa volontà di creare deterrenza interna: il governo di Mosca vuole provare a dimostrare che fa sul serio, per primo ai suoi stessi cittadini, diversi dei quali si sono uniti al jihad del Califfo in Siria e Iraq.

…CHE BOMBARDANO PANETTERIE E OSPEDALI

La realtà dei fatti è un po’ distante: la Russia non si è quasi mai concentrata seriamente con i propri attacchi sullo Stato islamico, ma ha piuttosto preferito colpire altrove tra i gruppi che si oppongono al regime, dove ci sono i propri centri di interesse, e dunque quelli del governo di Damasco. In queste zone la presenza dei qaedisti di al Nusra, terroristi riconosciuti da tutti, è stata più che altro una scusa operativa. Qualche giorno un funzionario americano intervistato dal Wall Street Journal sosteneva (parafrasando): ci accusano di essere dalla parte dei terroristi, ma loro bombardano la gente in fila per prendere il pane, gli ospedali, le scuole, i centri di soccorso della protezione civile, dunque sono questi i terroristi che loro combattono?

BUONI CONTRO CATTIVI

L’intesa siglata ad inizio settembre tra Russia e Stati Uniti prevedeva che per evitare quello che sta succedendo in questi giorni – la “catastrofe umanitaria” ad Aleppo, per riprendere le parole del capo per il servizio crisi umanitarie dell’Onu – i primi controllassero il governo siriano, i secondi i gruppi combattenti. Probabilmente nessuno dei due grandi attori esterni in questo conflitto ha il completo controllo dei propri partner, ma è quasi certo che Mosca ha un’influenza superiore sui suoi. I russi accusano gli americani di non aver tenuto a bada i ribelli, i quali hanno compiuto continue violazioni al cessate il fuoco, e così l’esercito governativo s’è trovato costretto a riprendere le operazioni militari, con maggior ferocia di prima — questa è una lettura, completamente opposta quella che dice che sono stati i lealisti a riaprire gli scontri. Dunque Mosca legittima le reazioni di coloro che doveva controllare, mentre sono gli stessi aerei russi a coprire le operazioni militari di Damasco, bombardando dall’alto anche senza affinare troppo il targeting. Combatteremo finché la minaccia del terrorismo non sarà eliminata, ha fatto sapere il ministero della Difesa russo, e il giro ricomincia: noi siamo i buoni, non è colpa nostra se voi state insieme ai cattivi.

IL CAMPO E LA RAGIONE RUSSA

La realtà sul campo è notevolmente più complessa della semplificazione d’utilità russa, anche se a livello epidermico inclina la situazione a favore di Mosca, perché quelle alleanze di fatto esistono. Ci sono gruppi che ricevono o hanno ricevuto il sostegno americano che combattono in coordinazione con l’ex al Nusra, che adesso si chiama Jabhat Fateh al Sham (di seguito anche JFS) e si è ufficialmente staccata da al Qaeda. Qui “ufficialmente” assume toni relativi, perché i miliziani sono rimasti gli stessi, ma c’è stato un maquillage politico, di cui si è occupato per lunghi mesi il Qatar, che ha spostato la grande milizia combattente dal novero delle affiliazioni internazionali dei qaedisti: ora sono un gruppo combattente come gli altri, in teoria, perché in pratica nemmeno gli Stati Uniti li hanno tolti dalla lista delle organizzazioni terroristiche.

COORDINAMENTI IN PIEDI DA TEMPO

L’alleanza di gruppi amici degli americani con JFS è imbarazzante per Washington, chiaramente, ma è una necessità che molte delle formazioni ribelli sul terreno — ossia migliaia di chilometri distanti dalle pianificazioni politico-strategiche statunitensi —  cercano di motivare m da diversi anni (no, non è una novità tirata fuori dai russi, c’è una bibliografia piuttosto estesa a proposito). Tutti spiegano la ragione (o piegano) con la pragmatica della guerra: ci si unisce per affrontare con più forza il nemico comune. Bashar el Assad ha vinto sotto questo aspetto: nel suo intento di dipingere tutte le opposizioni come gruppi terroristici, ha permesso ad entità come lo Stato islamico o al Nusra di rafforzarsi e così si sono cerate certe situazioni. Solo che al Nusra ha sempre accettato collaborazioni, l’IS invece segue una linea che con eufemismo potremmo definire unilaterale (dittatoriale, meglio?), non valuta alleati, e considera anzi tutti gli altri combattenti che non si sottomettono al volere del Califfo come apostati: questo perché l’obiettivo principale dei baghdadisti non è rovesciare il rais siriano, ma è un traguardo egemonico più ampio (tra l’altro ora in declino). Al Nusra non solo ha avuto un atteggiamento più aperto, ma possiede più armi, e allo stesso tempo ha più convinzione e determinazione – dovuta anche all’ispirazione ideologica –, in una parola, è sempre stata l’entità più forte di quelle che combattono il regime, e per questo ha magnetizzato anche altri gruppi che avevano lo stesso intento.

È LA GUERRA: STAI CON CHI TI AIUTA A NON MORIRE

Si tratta di coordinamenti operativi, non di combattimenti fianco a fianco, soprattutto al nord. Spostamenti spinti dalle contingenze: per esempio, quando in un’area controllata, un gruppo era stretto da assedio dai lealisti e arrivavano quelli di al Nusra in aiuto, e riuscivano a sbloccare la situazione con i carri armati che avevano rubato al regime. È stato proprio nella necessità che queste joint venture, accettate anche con difficoltà dai più moderati, hanno preso vita. Semplificando, se i russi ti attaccano dall’alto, gli Stati Uniti non ti affiancano, tu lotti per mantenerti vivo contro un regime che odi, e l’unico aiuto ti arriva da un gruppo jihadista, pure se non lo ami, di certo non lo odi di sfrutti l’onda per galleggiare. Sul fronte sud invece, il Southern Front del Free Syrian Army, ribelli moderati, ha sempre mantenuto un politica più indipendente, dato che riceve aiuti molto più consistenti dal programma congiunto Stati Uniti e Giordania.

VORREMMO I NEGOZIATI, MA PER ADESSO MEGLIO COMBATTERE

È così che nell’ultima settimana, per esempio, sotto la pressione devastante di bombe anti-bunker, napalm, proiettili termobarici e barrel bomb devastanti, un gruppo ribelle, Nour al Din al Zinki, inserito tra quelli riconosciuti dalla Cia – vengono definiti “vetted” che è un po’ come marchiarli di buona affidabilità, ossia lontani da istanze jihadiste – ha deciso di allearsi con Jaish al Fatah, l’Esercito della conquista, una turbolenta formazioni che raggruppa diverse fazioni ribelli, alcune della quali, come JSF, Jund al Aqsa, Arhar al Sham, islamiste, e che è tornata a combattere nell’area di Aleppo da luglio, proprio per volontà degli ex qaedisti (che sono la fazione interna percentualmente maggioritaria). Nour al-Din al-Zinki è un gruppo storico dell’opposizione combattente, considerato non ideologico, è fortemente radicato ad Aleppo dal 2012, ed è/era uno delle più forti e numerose entità indipendenti nella zona: ha ricevuto appoggio da Arabia Saudita e Stati Uniti, che nell’ambito di un vecchio programma congiunto hanno provveduto a passare ai combattenti di al Zinki anche le armi anticarro Tow; la linea politica, distanziatasi dall’islamismo, crede nella possibilità di raggiungere una mediazione negoziata col regime. Eppure ora combatte al fianco degli ex eredi locali di Bin Laden. Sentito dal Wall Street Journal, il capo politico del gruppo ha spiegato che la loro decisione era una ovvia reazione all’atteggiamento dell’America, “che sta regalando la guerra alla Russia”, focalizzandosi soltanto sulla lotta la terrorismo.

PROVARE L’ALL IN

Charles Lister, autore del libro “The Syrian Jihad” e ricercatore del Middle East Institute tra i massimi esperti al mondo sul conflitto, ha scritto in un lungo saggio per War On The Rocks che combattere soltanto il terrorismo è “una strategia di contenimento che cerca di curare un sintomo senza mettere in discussione la malattia: la continua brutalità del regime di Assad e il suo rifiuto di negoziare. Fino a quando Assad rimane al potere a Damasco e fintanto che le sue forze armate e i sostenitori stranieri continuano a commettere crimini di guerra quotidiani contro il suo popolo, il terrorismo esisterà e anzi crescerà nel prossimo futuro”. Per Lister, stante come stanno le cose – cinque anni di negoziati risolti in continui fallimenti e l’avvio ad Aleppo di una sorta di soluzione finale – forse l’America potrebbe cambiare atteggiamento. Per esempio, iniziare a rifornire con più assiduità i ribelli, costruendosi l’immagine di partner affidabile, e poi imponendo con la forza e se serve unilateralmente, un cessate il fuoco non appena le opposizioni siano riuscite a riprendere un po’ di terreno (questo significherebbe giocare un sorta di all inn contro la Russia, ossia vedere fino a che punto Mosca vuole spingere il proprio atteggiamento guerresco contro gli Stati Uniti). Tra questi rifornimenti — esclusi quelli più consistenti (esclusi?) —!potrebbero essere inclusi i Manpads antiaerei, sistemi che dovrebbero colmare il gap tecnico tra i governativi, che hanno un’aviazione, e ribelli, che adesso avrebbero sistemi in grado di contrastarla. In un audio di un incontro tra il segretario di stato americano John Kerry, molto frustrato per la situazione, e un gruppo vicino alle opposizioni siriane, ottenuto dal New York Times, il capo della diplomazia statunitense spiegava ai suoi interlocutori che anche questo rifornimento è molto complicato. La Casa Bianca teme che possano finire in mani sbagliate (ossia, in quelle dei jihadisti che poi potrebbero usarli per compiere attentati: Manpads americani usati dai terroristi per abbattere aerei civili, come suona?), e questo è il fulcro del discorso già noto – l’intenzione di fornire questo genere di armi ai ribelli è in piedi da anni. Ma Kerry dà una spiegazione in più sullo scetticismo: se noi vi diamo i Manpads, dice, allora poi i russi aumenteranno il coinvolgimento, i siriani le violenze, gli Hezbollah le forze, gli iraniani il sostegno, si metteranno in mezzo inevitabilmente Turchia e Arabia Saudita, e ci sarà un’enorme escalation. Finora questi passaggi sono stati bloccati, e anche gli alleati regionali americani, molto più coinvolti nel conflitto siriano (per esempio: Turchia, Arabia Saudita, Giordania, Qatar), hanno seguito le richieste americane. Ma non è detto che il procedere dei bombardamenti non possa, a) far cambiare idea a Washington, b) far cedere Riad, o Doha, o Ankara, su eventuali spostamenti clandestini (magari sotto la via non ufficiale di qualche generoso benefattore). Si parla già della forte volontà dei sauditi, a cui Washington deve lasciare spazio almeno sulla Siria per bilanciare alcuni passaggi che hanno fatto vacillare l’alleanza (il deal con l’Iran, la legge che permette alle famiglie delle vittime del 9/11 di chiedere risarcimento al Regno).

 

×

Iscriviti alla newsletter