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Tutte le sinistre sciocchezze su Napolitano e Craxi

Colgo al volo, e molto volentieri, un’occasione per non occuparmi dalla ormai noiosa questione del referendum costituzionale. Che non so francamente come potrà riuscire a restare sulle prime pagine dei giornali sino al 4 dicembre, salvo rinvii che vedo infastidire anche chi ha tentato di provocarli con i soliti ricorsi giudiziari. È una specialità tutta italiana, si sa, quella di chiedere il soccorso dei magistrati quando si teme una sconfitta politica.

L’occasione per una distrazione me la forniscono le rievocazioni della rivolta antisovietica degli ungheresi nel sessantesimo anniversario di quei tragici avvenimenti, insanguinati da una repressione durissima, purtroppo nella sostanziale indifferenza di un Occidente che proprio in quei giorni si era diviso sulla crisi di Suez. Il cui canale era stato nazionalizzato dagli egiziani fra le dure reazioni militari di israeliani, francesi e inglesi fermate però dagli americani, d’intesa coi sovietici.

Le rievocazioni della generosa e sfortunata rivolta di Budapest hanno riproposto le ossessioni parallele della destra e della sinistra di oggi, unite dalla incapacità di storicizzare fatti che pure sono accaduti tanto tempo fa, e in un contesto così diverso da quello attuale. Un contesto, per esempio, in cui gli ungheresi partecipi dell’Unione Europea alzano contro il fenomeno epocale dell’immigrazione le stesse reti che li avevano isolati negli anni della cosiddetta cortina di ferro. Essi contribuiscono così a scaricare sui Paesi rivieraschi come il nostro gli oneri pesantissimi della solidarietà e dell’accoglienza.

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La cultura – ahimè – di destra ha rispolverato dagli archivi gli articoli e gli interventi del già allora dirigente comunista Giorgio Napolitano. Che, pur senza arrivare allo stomachevole bicchiere di vino in più che il segretario del Pci Palmiro Togliatti si era vantato coll’allora direttore dell’Unità Pietro Ingrao di avere bevuto in onore dell’occupazione sovietica dell’Ungheria, aveva condiviso la repressione di una rivolta, secondo lui, pericolosa per la pace. E toccò poi allo stesso Napolitano, come “delegato” di Caserta, anche l’onere di difendere al successivo congresso del partito la linea filosovietica contestata da Antonio Giolitti. Che lasciò per quel dissenso il partito per approdare nel Psi di Pietro Nenni, decisosi proprio per i fatti di Ungheria a rompere il patto di unità d’azione con i comunisti già costata ai socialisti la perdita del primato a sinistra guadagnatosi nelle prime elezioni del dopoguerra.

Il primo gesto compiuto da Giorgio Napolitano nel 2006, quando venne eletto presidente della Repubblica, fu di andare a trovare Antonio Giolitti a casa, a conferma del riconoscimento già espresso pubblicamente del grave errore compiuto 50 anni prima.

Si potrebbe anche capire, per carità, il rifiuto di una certa cultura e militanza di destra di perdonare, diciamo così, a Napolitano quell’errore. Lo si capisce meno, anzi non lo si capisce per niente, dopo che quella stessa destra nel 2013, cioè solo tre anni fa, non si limitò a contribuire ma promosse, sostenendola per prima, la rielezione di Napolitano, non di un suo sosia, a capo dello Stato.

La storia non può essere maneggiata come uno straccio, che si butta e si recupera secondo le convenienze. O come un abito, che si mette e si dismette secondo le stagioni e la moda.

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Lo spettacolo a sinistra non è migliore. Achille Occhetto, che nel 1956 aveva 20 anni, ha raccontato a 80 belli che compiuti otto mesi fa di avere condiviso allora la posizione di Nenni ma di avere ugualmente difeso quella opposta di Togliatti. E perché mai? Perché non considerava i socialisti capaci di fare una politica di sinistra, a favore dei più deboli. Ma non erano forse i poveri ungheresi più deboli dei sovietici?

Diffidente dei socialisti del vecchio Nenni, figuratevi cosa Occhetto, diventato nel frattempo segretario del Pci, e poi del Pds furbescamente improvvisato dopo la caduta del muro di Berlino, pensò dei socialisti di Bettino Craxi. Ch’egli ha infatti descritto, in una intervista al Fatto Quotidiano, come un uomo legatosi troppo alla Dc per poter diventare un serio interlocutore per la formazione di un partito unitario della sinistra, dopo il fallimento del comunismo.

A questo proposito Occhetto ha raccontato di un suo incontro con Craxi, dopo le elezioni del 1992, nel quale sperava di strappargli l’impegno a non tornare al governo con la Dc, appunto per costruire col Pds-ex Pci un’alternativa di sinistra, per quanto ne mancassero i numeri nelle nuove Camere. Ed ha riferito di essersi sentito rispondere che i socialisti lo avrebbero fatto fuori come segretario del partito se li avesse portati all’opposizione.

Di quell’incontro io ebbi invece da Craxi tutt’altra versione, poi confermata dai fatti. Egli non chiuse ma aprì allo scenario di Occhetto, pur di sperimentare davvero la strada di quella che lui chiamava “unità socialista”. Ma questo – gli obbiettai – rende il Paese ingovernabile. Come fai – gli chiesi – a tornare alla linea di Francesco De Martino: mai più al governo senza il Pci? La risposta di Craxi fu questa: “Figurati se quelli vogliono fare davvero un accordo con me. Il loro è solo un bluff che voglio smascherare. Quelli mi vogliono solo morto. Vedrai che mi obbligheranno a fare un accordo con la Dc perché in effetti non si può lasciare il Paese senza governo”.

Dopo qualche giorno, nel bel mezzo di una riunione della direzione socialista convocata per discutere sui rapporti con i comunisti, o come diavolo volevano essere chiamati, proprio l’ineffabile Occhetto diffuse una dichiarazione per annunciare una preclusione “morale” verso il segretario del Psi.

La questione morale era naturalmente costituita dalla vicenda di Tangentopoli, che alle Botteghe Oscure, pur non estranee al finanziamento illegale dei partiti, erano decisi a cavalcare volendo Craxi in galera o morto: proprio come lui mi aveva detto.

In galera il povero Bettino evitò di finirci rifugiandosi nel 1994 nella sua casa tunisina. Alla morte, sopraggiunta nel 2000, mancavano solo sei anni scarsi. Ma fu pure la fine della sinistra, visto lo stato in cui si è ridotta da sola, anche se Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Occhetto e compagni, non potendo più prendersela con Craxi, se la prendono adesso con Matteo Renzi.

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