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La Kuznetsov è il paradigma della forza e della debolezza di Mosca

Mercoledì 11 gennaio il comandante militare che tiene sotto controllo la Cirenaica, la regione orientale della Libia, il generale Khalifa Haftar è salito a bordo della portaerei russa Admiral Kuznetsov. La nave, col suo gruppo da battaglia, si trova a largo di Tobruk, città costiera della Cirenaica che ospita il parlamento libico auto-isolato, dove eseguirà un’esercitazione su un tratto di Mediterraneo super-sorvegliato tra le coste dell’est libico e Creta.

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La Kuznetsov è un paradigma perfetto per raccontare la Russia attuale (e immediatamente futura, come riporta il report redatto dall’ufficio del Director of National Intelligence americano): quella incastrata tra prove di forza a sfondo geopolitico, per affermare con aggressività la propria dimensione di superpotenza globale, e la crisi economica che la congela all’interno.

La nave era scesa da Murmansk con un viaggio iniziato a metà ottobre scorso (più o meno negli stessi giorni in cui in Libia si consumava un primo tentativo di colpo di stato contro il governo onusiano, quello di giovedì firmato dall’ex premier autoproclamato Khalifa Ghwell). Ha attraversato le acque di diversi paesi membri della Nato sollevando preoccupazioni e innescando una specie di battaglia navale a distanza, con le imbarcazioni inglesi, norvegesi, olandesi, francesi che la seguivano in cagnesco. La missione della Kuznetsov prevedeva il sostegno alle operazioni militari che erano in atto su Aleppo e che avrebbero di lì a poche settimane portato allo scacco finale dei governativi. Ma il suo ruolo non è andato come doveva, se non per il risalto mediatico. L’unica portaerei russa ha infatti più problemi che pregi, deve muoversi con un rimorchiatore d’altura in continuo stato d’ansia e soprattutto ha problemi al ponte: in circa due mesi di attività siriana sono precipitati due caccia, entrambi in fase di atterraggio, entrambi non agganciati dai cavi di frenata. Però quel risalto mediatico c’è stato e Mosca ha potuto mostrare i muscoli, che non ha.

Già all’inizio della missione in Siria si sapeva che sarebbe durata poco perché era necessario un lungo stop in cantiere, proprio per il completo rifacimento della copertura del ponte e degli annessi. E dunque, perché spostarla in un viaggio che ha attraversato per latitudine mezzo mondo se non per una dimostrazione di forza? Il rientro viene fatto passare da Mosca come un progressivo alleggerimento militare in Siria, ma in realtà era una necessità tecnica programmata. Nel simmetrico viaggio di ritorno (ci si aspettano foto, riprese e qualche provocazione come all’andata), la nave s’è fermata a largo della Libia. Da mesi si sa che la Russia ha iniziato a tramare alle spalle del governo promosso dall’Onu (nonostante goda di una specie di silenzio assenso formale anche russo) appoggiando le mosse e le ambizioni del generale Haftar. L’ultimo passaggio vicino alle coste di Tobruk, con annessa visita del generale-politico, colloqui in video conferenza col ministro della Difesa russo, picchetto d’onore sul ponte e servizi sui media di stato, è un messaggio. Mosca è molto avanti nello spostare in Libia il “modello-Siria”, ossia quell’insieme di appoggio (inizialmente) clandestino poi via via più esplicito con cui ha puntellato il regime di Damasco – per esempio, in questo momento pare che la Russia stia fornendo apparecchiature e materiale medico all’est libico, che mentre combatte una battaglia contro le infiltrazioni anche IS a Bengasi, persegue più che altro un obiettivo egemonico sul paese.

Come in Medio Oriente, il fine ultimo del piano nordafricano non è la soluzione della crisi, o almeno non quella che prevede una pacificazione pura della situazione. La Russia ingaggia certe questioni seguendo una propria agenda: nel caso, l’interesse è costruirsi la possibilità per uno sbocco mediterraneo, nel cuore pulsante della Nato e dell’Europa, e contemporaneamente dimostrare sostegno all’Egitto. Un pezzo di proprietà transitiva: il Cairo è per la Russia un alleato strategico, tirato per la giacchetta a suon di aiuti militari ed economici, e gli egiziani considerano la Cirenaica un orto di casa, e vogliono giocare le proprie carte sulla partita libica appoggiando Haftar, l’uomo di fiducia. Il rapido evolversi di questa situazione, che nell’ultimo mese ha visto la Russia stringere più rapidamente verso Haftar, suona come una minaccia, o un ultimatum a Fayez Serraj, incaricato dall’Onu di formare il governo di pacificazione, ma bloccato dal poco consenso, e dall’opposizione di Haftar (in parte minore da quella di alcuni gruppi tripolitani come quello di Ghwell). E contemporaneamente quest’ultimatum scatta per chi sostiene Serraj, come l’Onu, e come i paesi occidentali tra cui in primis l’Italia.

Ancora una volta, il presidente Vladimir Putin si muove aggressivamente sui dossier internazionali, anche in questo caso usando la scusa della lotta al terrorismo, su cui ha siglato accordi con Haftar: quella stessa lotta al terrorismo che nella narrativa russa la Kuznetsov doveva andare a combattere ad Aleppo – salvo il fiasco tecnico e i fini diversi. In Siria, Putin esce vincitore solo perché ha ottenuto ciò che voleva per i propri interessi, ma non ha combattuto l’IS, che resta tale e quale (se non per i colpi degli americani), e non ha risolto la crisi politica che ha innescato la sanguinosa guerra civile.

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