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Cosa può succedere se si tornasse alla lira? Ipotesi e timori

Gianfranco Polillo

L’ultimo sondaggio del Corriere della sera, ad opera di Nando Pagnoncelli, ci dice molto sul sentiment degli italiani. “Cade”, infatti, come riporta il titolo, “la fiducia nell’Unione ma prevale il sì all’euro. “L’exit” vince,” invece, “tra chi vota centrodestra e 5 Stelle”. Secondo i dati riportati “un cittadino su due (49%) considera l’ipotesi di “Italexit” uno svantaggio, mentre il 36% si mostra non particolarmente preoccupato, anzi, prevede possibili vantaggi”. Per un ritorno alla lira, ma sarebbe meglio parlare di liretta, si pronuncia un terzo degli intervistati. Dati questi numeri, è facile prevedere che, in vista delle prossime elezioni, non solo in Italia, almeno a giudicare dalle dichiarazioni di Pierre Moscovici, questo tema diverrà uno dei cavalli di battaglia tra i diversi contendenti.

La maggioranza a favore dell’euro, al momento, non solo è evidente. Ma delinea un campo politico. Da un lato le forze riformatrici, in senso lato; dall’altro populisti – non troviamo un altro termine – di vario genere e credenza. Al tempo stesso le contrapposte parole d’ordine si presentano con un significato simbolico che determina la cifra dei due possibili schieramenti. Valori, ideali, scelte di campo che la faranno da padrone più di qualsiasi impostazione programmatica. Per quanto ben confezionata essa possa essere. È bene quindi metterci la testa fin da ora. Sarà, infatti, difficile, in un secondo tempo, cambiare idea o tornare indietro.

Cosa c’è dietro uno schieramento, quello a favore dell’euro, che, al momento si presenta maggioritario, con uno scarto consistente? Buon senso popolare, paura di un possibile salto nel buio? Difesa di quel poco o tanto che ciascuno di noi, in tutti questi anni, è riuscito a conservare: a partire da quella ricchezza finanziaria che rappresenta ancora uno dei primati italiani nel contesto internazionale? Problemi tutt’altro che secondari: come si vede. Una scelta sbagliata può pregiudicare i risultati di una vita. È bene quindi che prima di aderire a ipotesi sommarie, si tenti di tracciare i possibili scenari. Cosa può succedere se si tornasse alla lira?

L’eventuale vecchio conio non avrà ovviamente il valore dell’euro. L’unica certezza è che ci troveremo di fronte ad una moneta svalutata. Per questo parlavamo di “liretta”. Del resto chi punta su questa opzione, lo fa nella speranza che, grazie alla svalutazione monetaria, come nel bel tempo andato, si possa recuperare quella competitività oggi impedita dalla mancanza delle necessarie riforme. Si potrà, pertanto, discutere sul quantum, ma non certo sulla sua ineluttabilità.

È possibile trovare un qualche riferimento internazionale, alla luce del quale tracciare un possibile scenario? Ne abbiamo scelto tre. La crisi dello SME – il sistema monetario europeo – che, nel 1993 portò alla svalutazione della lira. Quello greco, con la sua crisi non risolta. Importante perché Alexis Tsipras, come si ricorderà, cavalcò l’ipotesi di un referendum scissionista, salvo fare poi una precipitosa marcia indietro. Ed, infine, quello dell’Argentina della fine degli anni ’90: costretta alla fine a decretare il default dei “tango bond”. I cui rimborsi, a favore dei creditori esteri, si protrassero fino allo scorso anno.

Com’è noto la crisi dello SME fu determinata, in larga misura, dalla politica adottata dal governo tedesco per giungere alla riunificazione del Paese. Le politiche economiche e monetarie adottate stressarono un equilibrio valutario già precario, determinando la svalutazione della lira e della sterlina. Più un generale sconquasso nel resto dei Paesi europei. La lira perse il 30 per cento del suo valore. La caduta del reddito pro-capite, secondo i calcoli del FMI, fu del 20 per cento. E ci vollero 10 anni, per recuperare, seppur con alti e bassi, i valori del 1992. Solo nel 2002, il reddito pro-capite tornò ad essere leggermente superiore ai 22 mila dollari: contro i 23 mila dell’inizio del decennio.

La Grecia, nonostante la sua crisi, è rimasta nell’euro. Crescerà, nel 2017 e nel 2018, secondo previsioni della Commissione europea, appena sfornate, rispettivamente del 2,7 e del 3,1 per cento. Arrestando, per la prima volta, una voragine. Ma certo: è stata dura. Una crisi lunga 7 anni, con una perdita del reddito pro-capite di circa il 44 per cento. Che ha stremato un intero popolo, costretto a finanziare il suo enorme debito pubblico, pari nel 2016 al 180 per cento del Pil, pagando tassi d’interesse, nonostante Mario Draghi, vicini all’8 per cento. Con uno spread che è due volte e mezzo quello italiano. Che si veda la luce in fondo al tunnel è, quindi, notizia che non può non rendere felici.

La crisi argentina scoppiò alla fine degli anni ’90. E fu un’immane tragedia. Il suo debito pubblico si polverizzò, a seguito della caduta del “peso”. A sua volta determinata da una fuga dei capitali verso l’estero. Le banche furono prese d’assalto ed i vecchi depositi svuotati per acquistare dollari. Nel volgere di tre anni – dal 1999 al 2002 – la caduta del reddito pro-capite fu del 68 per cento. Nell’ottobre del 2002, il livello di povertà estrema, colpì il 57,3 per cento della popolazione. Per poi ridursi lentamente. Ma ci vollero ben 10 anni per recuperare i livelli del 1999. Oggi le cose vanno meglio. Il FMI internazionale prevede, nei prossimi anni, un tasso di crescita vicino al 3 per cento. Ma quanto è costata, in termini di sacrificio, la cattiva gestione di quella drammatica congiuntura?

Sugli episodi descritti credo vada fatta una riflessione. Forse in Italia le cose andranno diversamente. Forse il Nord-est, grazie alla svalutazione derivante dall’abbandono dell’euro, avrà un leggero giovamento. Ma che sarà del resto del Paese? Purtroppo nella letteratura economica non esistono esempi virtuosi di svalutazione monetaria. Ogni qual volta questo è avvenuto, ci sono stati anni di sofferenza, prima della possibile ripresa. Pensiamoci bene, allora, prima di farci affascinare dalle sirene dell’inconsapevolezza.

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