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Cosa diranno i 27 sul futuro dell’Europa nella cerimonia a Roma per i 60 anni dei Trattati

Di Lorenzo Robustelli

Sarà come promesso una dichiarazione breve, senza fronzoli: una pagina e mezzo. Il testo della Dichiarazione di Roma, che i Ventisette adotteranno in occasione della cerimonia per i 60 anni della firma dei trattati che hanno poi dato vita all’Unione europea è pronto, “è chiuso”, spiegano fonti diplomatiche a Bruxelles.

È chiuso anche per non farci entrare ancora altra acqua, per non rischiare che le già deboli previsioni non diventino solo generici auspici.

Il documento è in due parti, una sui “valori” dell’Unione e una sugli impegni futuri. Si comincia sottolineando i 60 anni di pace che l’Unione ha garantito a Paesi che per secoli si erano continuamente fatti guerre (osservazione che sembra diventata banale, ma che non lo è affatto), poi la crescita politica ed economica del continente, i diritti garantiti ai cittadini. Poi ci sono i quattro punti di prospettiva “sull’impegno dell’Unione nei prossimo otto anni”, si spiega, che sono sicurezza, difesa, migrazioni, politiche sociali e crescita.

Il testo è stato redatto dal gabinetto del presidente del Consiglio europeo Donald Tusk (nella foto a destra), ma l’Italia ha avuto un ruolo importante nella negoziazione del testo definitivo, anche perché la Dichiarazione sarà firmata a Roma, e il governo italiano sarà tra i “presidenti” della giornata. E a Roma sono “molto soddisfatti”, addirittura considerano questo testo “un grande successo”.

È il testo che si è potuto avere, in realtà, pressati dall’esigenza di avere la firma di tutti, e già questo sarà un successo, anche se, a dire il vero, è difficile immaginare cosa sarebbe stato un documento senza ventisette firme se non la fine dell’Unione. In questo momento difficile per l’Unione, con la Brexit alle porte, le tante tensioni euroscettiche in importanti Paesi, con le complicate relazioni internazionali che ci sono con Usa e Russia, “questa è stata una prova di unità a Ventisette”, dicono i diplomatici.

I punti più difficili sono stati due, per i quali il lavoro di “wording”, di ricerca delle parole che potevano essere accettate da tutti, è stato il più difficile: le due o più velocità e gli aspetti dell’Europa sociale. Sul primo in particolare la Polonia si è battuta contro, seguita, sembra a una certa distanza, dagli altri di Visegrad (Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) e da qualche Paese più piccolo, con il timore di essere lasciati indietro. “Lavoreremo insieme ogni volta che è possibile, a ritmi e intensità differenti quando necessario, come abbiamo fatto in passato all’interno delle previsioni dei Trattati, e lasciando aperte le porte a chi vuole aggiungersi più tardi. La nostra Unione non è divisa ed è indivisibile”, dovrebbe essere il testo finale sulla questione, che, si spiega, “rassicura quelli di Visegrad e i Paesi piccoli, anche perché si specifica che lo spirito è di apertura e non di esclusione”.

Sul secondo punto la Grecia ha puntato i piedi, mischiando un po’ la Dichiarazione con il negoziato in sede Ecofin sulla sua situazione economica. Anche qui non da sola, sempre quelli di Visegrad hanno detto la loro, poiché temono di poter perdere alcuni vantaggi dati dall’avere politiche di protezione sociale (e del lavoro) più deboli di altri. Si è deciso, su questo punto, di “tenere conto dei diversi sistemi nazionali” e di garantire “pari opportunità”. Formule in realtà vaghe, ma le uniche possibili.

(Articolo tratto dal sito Eunews.it)

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