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Papa Francesco e i 3 giorni storici (non solo a Milano)

papa francesco, carità

Il 26 marzo di cinquant’anni fa Paolo VI promulgava la lettera enciclica Populorum Progressio, che senza dubbio possiamo definire l’enciclica anticipatrice del pontificato di papa Francesco. Un’enciclica rivolta a tutti, non solo ai credenti. Un’enciclica intrisa di “sviluppo umano integrale”, cioè, come disse Paolo VI, di “sviluppo di tutto l’uomo, di tutti gli uomini”.

Paolo VI era un uomo prudente, tanto che alcuni studiosi americani hanno rivelato che la parola più diffusa nei suoi testi è “but”, ma… Una parola, simbolo di una preoccupazione costante a trattenere l’autore Montini dall’essere perentorio, definitivo.  Ma, è proprio il caso di usare il ma anche qui, questa preoccupazione non ha impedito a papa Paolo VI di inserire molti elementi forti, progressivi, come la famosa frase, proprio della Populorum Progressio, che riconosce la stessa legittimità del tirannicidio, in circostanze estreme e consapevoli dei rischi che il suo uso comporta.

Lo speciale rapporto tra Montini e Bergoglio risiede in tantissimo altro, probabilmente nella visione ecclesiale c’è il suo “cuore pulsante”, eppure in Populorum Progressio emerge un’attenzione per le grandi città sconosciuta ai pontefici precedenti e così commovente in quell’enciclica, in particolare dove si parla dei centri storici che si svuotano dei suoi tradizionali, spesso agiati abitanti e si riempiono di questuanti, senzatetto, derelitti, sbandati. Montini era stato arcivescovo di una grande metropoli e aveva imparato a conoscere sogni, incubi, speranze, dolori dei cittadini. Anche Bergoglio è stato arcivescovo di una grande metropoli e ha detto che non potrebbe che vivere in una grande città. C’è forse in questa loro profonda contemporaneità la radice di tante avversioni: “Paolo Mesto”, “Maolo sesto”, sono alcuni dei più cattivi deformanti usati per irridere il primo, del nuovo inutile dire.

Oggi le metropoli, come ha giustamente osservato anni fa l’attuale sindaco di Londra, sono al centro dell’emergenza terrorismo. In particolare le città europee, così incapaci di ritrovarsi davanti a questo nemico spietato e invisibile: tanto da apparire pronte a smarrire il loro tessuto di luogo dei “cittadini”, davanti a un prodotto delle loro difficoltà a confermarsi ogni giorno tali. È l’islam del sindaco londinese il cuore dell’islam londinese o è l’islam dell’attentatore? O l’islam di quest’ultimo è il kit pronto all’uso di tanti nuovi nichilisti? A guidare i coltelli di questi “lupi solitari” non c’è forse un nuovo nichilismo? Non c’è forse un nuovo radicalismo che ama la distruzione, la morte, dietro e dentro questo nemico invisibile capace di trasformare un motorino, o un tir, in una bomba?

E non sono le grandi città il loro luogo di coltura?

Per questo Paolo VI e Francesco appaiono i papi più indicati ad aiutare a capire, approfondire, curare questa ferita. Insieme al grande sociologo, Bauman, purtroppo scomparso ma che ha avuto nella loro visione come un sensore, o un pezzo di cuore. Non è Paolo VI il papa che seppe scrivere “agli uomini delle Brigate Rosse”?

Questa visione, questa capacità di “guardare, vedere, curare”  venerdì sera papa Francesco cercherà di trasmetterla ai capi di stato e di governo europei prima che abbia inizio la commemorazione dei trattati di Roma. E c’è da scommettere che il cultore del concetto di popolo non lo sostituirà neanche questa volta con quello di “nazione”. Troppo amato il primo, troppo malato il secondo.

Il popolo di Bergoglio produce cultura, coinvolge, va avanti, la nazione troppo spesso esclude, divide, emargina alcuni degli abitanti di un territorio. Il suo discorso sarà un tentativo di far ricordare ai leader europei che l’Europa o  “si farà popolo” o si scioglierà sotto i colpi della crisi, degli egoismi e di nemici che non devono vincere.

Ma il rischio di finire riguarda anche noi, se seguiteremo a non vedere, o a non voler vedere altri cittadini, quelli detenuti. Due emergenze che forse sono meno lontane, meno separate di quel che appaia. E Bergoglio, poco dopo aver incontrato i capi di stato e di governo, partito per Milano, andrà anche a San Vittore, dove con ogni probabilità dopo pranzo riposerà nella stanza del cappellano.

Cosa vuole comunicarci con questo luogo prescelto per il riposo? Non lo so, non posso saperlo. Posso dire che a me questo messaggio “parla” di un sogno. Come quello di una figura cristiana a lui evidentemente molto cara,  visto che l’ha citata spesso: Martin Luther King. Il sogno di Martin Luther King fu un “sogno detto”, un sogno di fratellanza, di amicizia al di là di barriere immaginarie ma profonde, come quelle tra chi ha la pelle di un colore e chi di un altro, tra chi si sente migliore e ritiene gli altri peggiori, tra chi non sapendo vivere insieme agli altri finirà con il morire con gli altri come uno stolto.

Il sogno di Bergoglio ricorda il sonno del suo San Giuseppe addormentato, la statua che ha con sé. È una teologia di abbandono alle strade di Dio, non a quelle degli uomini. Così, riposando come loro, da loro, con loro, Bergoglio riuscirà a diventare finalmente “uno di loro”, un loro fratello, capace di condividere, sognando, i loro sogni, i loro desideri, le loro speranze, i loro ricordi, i loro dolori. Riposando con loro, condividendo con loro i momenti più intimi dell’abbandono, il sogno di Jorge Mario Bergoglio sarà quello di aprire le porte del carcere a tutti noi che le chiudiamo per farci vedere che anche lì dentro si vive, si ama, si spera.

Poi sarà il 26 marzo, anniversario della Populorum Progressio.

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