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Cosa nasconde la polemica sul calcetto innescata da Giuliano Poletti

pensioni, Giuliano Poletti, populismo, politica

La recente affermazione del ministro Giuliano Poletti secondo cui, per trovare lavoro, il calcetto conta quanto, se non più, del curriculum è stata variamente commentata e soprattutto criticata perché avrebbe accreditato il principio che la raccomandazione sarebbe più importante della competenza. Ai vari commentatori sembra sfuggire che quando un datore di lavoro cerca un collaboratore, non potendo farsi raccomandare (come il cercatore di lavoro) spesso si raccomanda al Padre Eterno nella speranza che gliela mandi buona.

Poletti ha semplicemente espresso una sensazione epidermica diffusissima nel nostro mondo produttivo. L’affermazione di Poletti e i vari commenti da essa suscitati sono il sintomo di una malattia ben più profonda: la mancanza di strumenti per fare il matching tra cercatori di impiego e cercatori di collaboratori.

Tale matching, nella complessa struttura produttiva di una economia moderna, non può essere lasciato al rapporto personale ma ha bisogno di un sofisticato apparato, apparato di cui sono dotati i sistemi economici più avanzati ma che non si riesce a far decollare in Italia. Nella attuale situazione caratterizzata da un alto tasso di disoccupazione si assiste all’assurdo che le imprese che cercano collaboratori non riescono ad individuare quegli individui che loro servirebbero, non tanto perché questi individui non esistono quanto perché non sanno dove essi si trovano, mentre il cercatore di impiego che possiede le caratteristiche utili all’impresa che lo cerca non sa che quella impresa sta cercando qualcuno con le sue caratteristiche. Questo incubo non solo contribuisce in maniera significativa a tenere alto il tasso di disoccupazione (rendendo lungo il periodo di ricerca), ma finisce spesso per forzare l’individuo ad accettare un lavoro per cui non è qualificato e costringe l’azienda a reclutare qualcuno non adeguato.

Cosa si dovrebbe fare per facilitare questo incontro? Bisogna formalizzare i profili professionali di base, in modo da poter inquadrare il cercatore di impiego in una prima griglia di riferimento, e bisogna saper fare la job description della posizione che l’impresa deve ricoprire. In questo modo, e solo in questo modo, le varie agenzie dedicate a favorire l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro potrebbero svolgere il loro compito. La così detta “dote” che i recenti provvedimenti legislativi mettono a disposizione delle agenzie, pubbliche e private, per fare il matching è destinata a non sortire alcun effetto se non si creano queste premesse.

La griglia dei profili professionali può essere più o meno dettagliata; in Germania i profili di riferimento sono ca. 250, in Svizzera 600, in Francia ca. 4.000.
Alcune Regioni Italiane (in primis la Toscana) hanno intrapreso da alcuni anni questo percorso (percorso poi generalizzato a tutte le Regioni con un sistema di equipollenza tra i vari sistemi regionali). Alla prova dei fatti, però, mentre il sistema funziona bene sopra le Alpi, il mercato del lavoro toscano (così come quello delle altre regioni che adottano sistemi simili, con l’esclusione della Provincia Autonoma di Bolzano) rifiuta il sistema di classificazione e, sopra tutto di validazione delle competenze in cui vengono declinati i profili. I datori di lavoro non si riconoscono in questa griglia e non credono al sistema di validazione delle competenze.

Questa sfiducia non è dovuta a atteggiamento preconcetto ma è ben giustificata. La definizione dei profili sopra le Alpi viene realizzata dalle organizzazioni datoriali in collaborazione con le organizzazioni sindacali. Nelle nostre regioni, in omaggio al principio secondo cui datori di lavoro e lavoratori si guardano in cagnesco, l’iniziativa di elaborare questi profili è stata presa dalle burocrazie regionali (le quali hanno coinvolto solo marginalmente gli operatori). Ne sono risultati profili alquanto esoterici. Sopra le Alpi la validazione delle competenze previste dai profili viene fatta da operatori (elettricisti, fornai, farmacisti, programmatori etc,) cui sono state insegnate (con brevi corsi di 15/20 ore) le semplici tecniche della validazione. Nelle nostre Regioni la validazione viene fatta da generalisti (prevalentemente psicologi) che vengono affiancati in posizione subordinata da alcuni operatori.

A queste disfunzioni va aggiunto un ulteriore punto critico. Una volta che un primo matching è stato fatto sulla base delle griglie dei profili professioni e della job description delle posizioni da ricoprire, è necessario poter verificare se concretamente l’accoppiamento proposto funziona: questa verifica viene fatta, sopra le Alpi, facendo entrare il cercatore di impiego nell’impresa e dando sia a lui che al datore di lavoro la possibilità di annusarsi per alcuni giorni (di solito meno di una settimana).

Qui emergono due punti da introdurre nell’agenda di chi vuole fluidificare il nostro mercato del lavoro. Innanzi tutto le organizzazioni datoriali ed i sindacati devono prendere in mano la questione e devono elaborare delle griglie di profili e delle pratiche di validazione delle competenze credibili. In secondo luogo il Job Act richiede una leggera manutenzione, là dove dovrebbe permettere ai cercatori di impiego di poter essere messi alla prova (dietro retribuzione adeguata) per alcuni giorni senza far scattare i meccanismi del rapporto di impiego.

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