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Corea del Nord, il test-flop e le mosse di Trump sulla Cina

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Poco prima dell’alba (ora locale) di sabato 29 aprile Corea del Nord ha effettuato un nuovo test di un missile balistico.

Il vettore, forse un Kn17 (nuova tipologia, di cui si sa poco, possibile sia un antinave), è esploso in volo pochi secondi dopo il decollo dal poligono di lancio di Puckang. Pare abbia percorso solo una quarantina di chilometri: i test su nuovi armamenti falliscono comunemente, però l’attenzione degli osservatori si è concentrata sul fatto che si è ripetuto quanto successo il 16 aprile. Il PACOM, il comando che per il Pentagono copre il Pacifico, ha commentato velocemente che il test non è andato a buon fine. Il missile è esploso sopra al territorio nordcoreano, dunque non ha rappresentato una minaccia per Stati Uniti e alleati, dicono i militari statunitensi. Dichiarazioni che si portano dietro due considerazioni.

Primo, c’è la mano americana dietro l’esplosione prematura del razzo? Da tempo si parla della possibilità che gli hacker del Cyber Command di Fort George Meade siano riusciti a violare le difese informatiche che proteggono i programmi missilistici nordcoreani. Attaccandoli potrebbero riuscire a manometterli in anticipo, secondo questi retroscena da film basato sulle informazioni circolate tre anni fa a proposito di un’idea del genere pensata dai tattici militari dell’amministrazione Obama.

Il secondo aspetto riguarda la sfumatura diplomatica dietro al test fallito. Che il missile abbia fatto cilecca (più o meno indotta) permette a Washington di traccheggiare davanti alle ripetute minacce lanciate in queste settimane. Il test resta una sfida alla comunità internazionale, una situazione che secondo la linea iper aggressiva tracciata inizialmente dalla Casa Bianca avrebbe potuto avere come conseguenza una risposta militare. Durante questa settimana Washington ha spostato la rotta verso la diplomazia dura (sanzioni e isolamento, economico e diplomatico), pur mantenendo la retorica guerresca. Washington sa che un’azione militare contro la Corea del Nord avrebbe conseguenze incontrollate, sia per le terribili rappresaglie di Kim Jong-un, sia per le posizione che potrebbero prendere la Cina e gli altri attori regionali (la Russia, il Giappone e la Corea del Sud).

Pressare Pechino è la via scelta da Donald Trump che ha condannato il test di Pyongyang e ha ricordato che si è trattata di una violazione di quanto richiesto prima di tutto dalla Cina. “La Corea del nord ha mancato di rispetto agli auspici della Cina e al suo altamente rispettato presidente lanciando oggi, anche se senza successo, un missile. Bad!” è stato il tweet uscito dall’account personale del presidente americano, diventato ormai lo spazio di comunicazione diretto che Trump usa per parlare a elettori e mondo interno.

Trump sta spingendo la minaccia nordcoreana come strumento strategico per costruire un rapporto con la Cina: Pyongyang è il vettore su cui impostare una linea di collaborazione tra le due più grosse economie del mondo.

Brevissimo, telegrafico, una sola riga, il comunicato del segretario di Stato Rex Tillerson, che poche ore prima del lancio nordcoreano aveva partecipato a un incontro riservato con gli omologhi giapponesi e sudcoreani, tenutosi a margine del ministeriale Esteri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – nel meeting del CdS la Russia ha pressato molto per evitare ogni genere di azioni armata, sottolineando che comunque Pyongyang non avrebbe rinunciato al programma atomico. Un altro bilaterale c’è stato con Wang Yi, il ministro cinese. Tillerson, parlando al vertice Onu, aveva addirittura evocato la possibilità di riaprire i colloqui diretti con Pyongyang pur di arrivare alla denuclearizzazione (tralasciando regime change o progetti ambiziosi di unificazione coreana molto invisi ai cinesi). Un atteggiamento soft probabilmente spinto anche da una, seppur debole, apertura mostrata venerdì dal Nord, che per la prima volta ha accettato la visita di un Commissario Onu per i Diritti umani.

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