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Corea del Nord, perché alla fine Trump è pronto a incontrare Kim Jong-Un

Trump

“Se fosse appropriato incontrarmi con lui, lo farei sicuramente, ne sarei onorato” ha detto Donald Trump a proposito di un potenziale incontro con il leader nordocoreano Kim Jong-un. La dichiarazione è arrivata lunedì, durante un’intervista concessa direttamente nello Studio Ovale alla Bloomberg. Trump ha aggiunto che ovviamente tutto dovrebbe avvenire sotto le giuste “circostanze”: “Abbiamo una breaking news” ha detto il presidente a proposito della sua dichiarazione (“che la maggior parte dei politici” non si sognerebbe di fare ha aggiunto), subito calmierata dal portavoce Sean Spicer che ha spiegato che al momento non ci sono i presupposti – sempre la Bloomberg ha scritto anche che il dittatore del Nord ha rifiutato un incontro con il ministro degli Esteri cinesi in questi giorni

UN INCISO

Innanzitutto una nota di contorno: Trump sa come dettare l’agenda dei media. A differenza della rappresentazione superficiale di un presidente incontrollabile che prende in mano il telefono e twitta bombe a destra a manca, la strategia comunicativa che esce dalla Casa Bianca è piuttosto mirata. Questo non significa che a volte non passi il segno, come noto: per esempio, sabato ha cacciato dallo Studio Ovale John Dickerson della CBS. Lo ha letteralmente fatto uscire a gesti, senza nemmeno parlargli, dopo che l’anchor man che lo stava intervistando gli ha domandato come procedeva la vicenda dell’accusa a Barack Obama di aver messo delle cimici nella Trump Tower per farlo spiare durante la campagna elettorale. È stata una delle dichiarazioni più forti fatte finora da Trump – un candidato repubblicano spiato da un presidente democratico evoca scenari da cospirazione che disintegrano i processi democratici –, ma è sempre stata forte quanto senza prove. Attualmente è sul binario morto delle questioni infondate: Dickerson gliene ha chiesto conto, Trump ha detto che sulla vicenda hanno opinioni diverse, il giornalista gli ha detto che il presidente non può avere “opinioni” su questioni del genere, Trump si è spazientito e gli ha detto smamma, Dickerson ha sorriso. Fine della nota.

LA GUERRA PSICOLOGICA

La dichiarazione di Trump sul leader di Pyongyang condiziona l’agenda dei media e momentaneamente chiude una fase di guerra psicologica lanciata contro il Nord. Prima la deterrenza (con la goffa storia della “USS Vinson”), poi le minacce di una grande conflitto, poi la linea diplomatica, infine la possibilità di un incontro, capolinea di una strade negoziale di cui già il segretario di Stato Rex Tillerson aveva già parlato. Domenica si sono concluse le esercitazioni congiunte annuali “Foal Eagle”, che hanno visti impegnati 20mila soldati sudcoreani e 10mila americani: erano uno dei grandi motivi di tensione, ma il giorno dopo due bombardieri B-1 Lancer americani sono decollati dall’isola di Guam, potenzialmente armati con bombe nucleari, e hanno viaggiato verso lo spazio aereo nordcoreano da caccia (made in Usa) di Seul; nello stesso giorno è stato annunciato che il sistema anti-missili Thaad in Corea del Sud è pronto all’uso. Kim trova odiose queste manovre (“Gli Stati Uniti stanno portando la penisola coreana sull’orlo di una guerra atomica” dicono i media del regime) perché sa che l’ovvio obiettivo finale simulato nelle esercitazioni è un attacco contro il Nord (con cui tecnicamente Seul è ancora in guerra), e quest’anno, complice l’inasprimento della retorica americana (anche con fini secondari come le pressioni sulla Cina), la situazione è peggiorata con continui show di forza. Fino all’apertura diplomatica di lunedì: reverso context alla “Mutt and Jeff” per spiazzare Kim, subito abbinato al sorvolo dei bombardieri strategici, e alla missione diplomatica di questi giorni che ha portato il capo della Cia Mike Pompeo a Seul.

UN SACCO DI COSE IN BALLO

Washington adotta la pressione psicologica come parte della strategia per far crollare il regime, che però non molla la retorica aggressiva. Da Pyongyang dicono che faranno un test nucleare non appena sarà necessario (nonostante Washington abbia più volte intimato di non farlo) e che il programma atomico continuerà, implementandolo il più possibile contro “la minaccia americana”. Sono messaggi che il giocatore asiatico al tavolo di confronto manda per ricordare che l’America si trova davanti un player da tenere in considerazione, e per necessità di tenere in piedi l’immagine interna. È un confronto negoziale, quello in atto, ma è possibile che con la fine di Foal Eagle 2017 le cose tornino su binari più sobri. Per ottenere un risultato non mi muovo mai con un unico approccio o un unico accordo, “all’inizio butto un sacco di cose in ballo”, so che molte cadranno da sole, ma non mi preoccupo delle promesse fatte per raggiungere un obiettivo, scriveva Trump nel suo libro più famoso, “The Art of Deal”.

IL DEAL

Al momento l’obiettivo da raggiungere per Washington è stabilizzare la situazione, magari una denuclearizzazione, ma quello che più interessa a Trump è che Pechino partecipi all’affare per aprire un canale di comunicazione con un nemico considerato sistemico; ai cinesi piacciono gli accordi, a Trump pure. Nella prima parte dell’intervista con Dickerson, Trump aveva ventilato l’ipotesi che potessero essere stati anche i cinesi ad hackerare i server del Partito Democratico durante l’ultima fase elettorale (le accuse ufficiali dell’Intelligence Community guardano altrove, alla Russia). È un’altra delle “balls in the air” lanciata nelle fasi preventive di un accordo? Sempre alla CBS il presidente americano aveva detto che Kim è uno “smart cookie“, che nel linguaggio comune di un affarista come Trump significa essere un tipo intelligente in grado di chiudere accordi in circostanza difficili (full disclosure: un breve saggio uscito su Foreign Policy dice che in fondo Kim è molto meno pazzo di quel che sembra). La questione nordcoreana è talmente importante, spiegava il presidente, che avrebbe potuto accettare un accordo commerciale “meno che ideale” con la Cina pur di risolverla. Washington ha aperto tre mesi di negoziati con Pechino per vedere come limare lo sbilancio commerciale di oltre 300 miliardi di dollari a favore dei cinesi. Al momento pare difficile risolverla in così poco tempo, ma se la Cina dovesse riuscire a fare qualche passo con Kim, Trump potrebbe costruire intorno alla vicenda la narrativa dello statista internazionale, anche al prezzo di accettare lo status quo commerciale con i cinesi – status quo che potrebbe subire modificazioni minime, ma che nello storytelling statunitense diventerebbero rivoluzioni che faranno tornare grande l’America.

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