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Cosa unisce e cosa divide Usa ed Europa dopo il G7 di Taormina

Angela Merkel, Paolo Gentiloni, Emmanuel MAcron, Donald Trump

Il dado è tratto e il Rubicone che separa la Germania dall’Italia è più largo. Sono queste le notizie più ottimiste sul vertice G7 di Taormina, durante i quali si sono consumati i più acerbi dissapori tra americani e tedeschi degli ultimi tempi. E non solo per la mancata conferenza stampa che il cancelliere tedesco e il presidente americano sono soliti rilasciare al termine degli incontri, cancellata in vista della partenza precoce di The Donald e del suo discorso con il suo uditorio preferito, i militari. In verità, tra verità sotto traccia e veleni all’aria aperta, le divergenze tra le due superpotenze stanno raggiungendo il climax.

Ne è una testimonianza il comizio che Merkel ha tenuto a Monaco ieri, in cui tra un boccone di birra e un altro ha affermato: “I tempi in cui potevano contare pienamente su altri sono in una certa misura finiti, come ho sperimentato nei giorni scorsi. Noi europei dobbiamo veramente prendere il destino nelle nostre mani (…) Naturalmente dobbiamo avere relazioni amichevoli con gli Stati Uniti e il Regno Unito e con altri vicini, inclusa la Russia (Cionostante) dobbiamo essere noi stessi e combattere per il nostro futuro”.

Le severe parole di Merkel vanno naturalmente messe nel contesto degli eventi di queste ultime settimane, e forse mesi, da quando l’aria tra Washington e Berlino è girata. Alla prima visita di Merkel alla Casa Bianca, l’accoglienza riservata all’ospite è stata gelida: insormontabili gli ostacoli del superdeficit commerciale di 114 miliardi di dollari raggranellati da Berlino. E per la potenza tedesca, il tycoon aveva riservato parole non meno indigeribili di quelle riservate ai cinesi, accusati di essere dei manipolatori di valuta e di stare “stuprando” l’economia americana a colpi di dumping commerciale. Ma i toni con i cinesi si sono ammorbiditi nelle ultime settimane: con Berlino l’aria invece non sembra essere cambiata.

Si capisce pertanto che il primo vertice G7 il tema binario che si intravede dietro questa disfida – globalismo contro protezionismo – sarebbe finito in primo piano. Con una mezza vittoria degli altri sette grandi che sono riusciti a inserire nel comunicato finale la condanna al “protezionismo” ma non a “ogni protezionismo”: non cioè quello che Donald Trump sogna di introdurre per riportare l’economia americana alle stelle.

Certo, di qui a concepire il tramonto della comunità transatlantica ce ne vuole. Sono ancora molte le istituzioni, a partire dalla Nato che, tengono uniti i Paesi delle due rive dell’oceano. Ma la comunione d’intenti e gli slanci ideali sembrano tempi andati. Basti pensare alla conferenza sul Clima di Parigi. Gli Stati Uniti sono riusciti a inserire nel documento del G7 la precisazione che ogni decisione in merito sarà rinviata fino a quando la nuova amministrazione Usa avrà maturato delle decisioni in proposito. M se è vero che il sito Axios di Mike Allen ha rivelato, citando diverse persone tra cui il ministro dell’ambiente Scott Pruitt, che l’America sta per ritirarsi dall’accordo. allora il buffetto si trasformerebbe in uno schiaffo sonante, considerato il clima di festa con cui fu salutato l’accordo di Parigi de 2015.

Rimane, certo, la possibilità che questi siano solo i primi balletti, gli assaggi di una cucina politica le cui leccornie verranno solo all’ultimo. Ma con un The Donald imprevedibile e abbarbicato sul suo mantra America First, è probabile che le relazioni transatlantiche siano destinate ad alterne fortune nel prossimo futuro.

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