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Tabqa: il test per le politiche americane in Siria

Giovedì della scorsa settimana l’inviato speciale della Casa Bianca per la Coalizione che combatte lo Stato islamico, Brett McGurk, era al nord della Siria per seguire da vicino come procede la liberazione di quella fascia di territorio dall’occupazione califfale.

In quella zona gli americani hanno stretto la principale alleanza locale – che ha un valore militare ma anche un peso politico – con i curdi siriani delle milizie Ypg (braccio armato operativo del Rojava, entità statuale sognata e rivendicata dalla minoranza etnica). Le partnership con le forze del posto stanno procedendo benone, e queste campagne ibride stanno adesso portando a galla i frutti di un lavoro profondo, fatto di consulenza, martellanti bombardamenti anche e soprattutto su bersagli mirati, impegno moderato a terra: le forze irachene guidate dalle forze speciali americane (e francesi e canadesi) stanno riprendendo Mosul, la roccaforte siriana; i curdi sostenuti dai Rangers americani hanno accerchiato Raqqa, la cittadella siriana.

McGurk era anche a Tabqa, dove il fotografo dell’AFP Delil Souleiman, diventato famoso per aver immortalato per primo i reparti speciali americani operativi al nord della Siria, ha scattato altre foto a questi soldati particolari che stanno coordinando i movimenti delle Sdf – il nome politico che Washington ha scelto per far passare le milizie liberatrici del nord siriano da corpaccione composto sia da curdi che da gruppi arabi.

Perché il problema, adesso, è il dopo.

Tabqa è una cittadina che si trova a cinquanta chilometri da Raqqa, ed è famosa per due cose: la diga che chiude il lago Assad (oggetto di una polemica tecnico-politico-propagandistica tra americani e baghdadisti), e una base militare dove nell’agosto del 2014 la rotta dei militari siriani aprì le porte degli armamenti ai soldati del Califfato (qui c’è una risposta implicita alla domanda comune con derive complottiste e saperlalunghiste: ‘Ma chi gliele ha date tutte quelle armi all’IS, eh!?’ Se le sono prese).

Da metà marzo 2017, quando sono stati trasportati là (dagli elicotteri e dagli Osprey americani) i miliziani delle Sdf, Tabqa è stata liberata dall’IS. Disinfestata al punto che McGurk e un gruppo di ufficiali occidentali che guidano le operazioni in quella zona hanno potuto visitarla, incontrare i membri del Consiglio cittadino che la amministra per il momento, e insieme a loro sono potuti andare con un adeguato livello di sicurezza anche alcuni giornalisti. Tra questi c’era Michael Gordon del New York Times, che ha scritto un reportage uscito con un titolo programmatico: “In una città disperata della Siria, un test per le policy di Trump” (commento: con l’amministrazione Obama, in larga misura, sarebbe stato lo stesso).

Tabqa è disperata perché nonostante le bandiere nere dell’IS non infestino più le sue vie manca tutto: non c’è acqua potabile, non c’è elettricità perché l’impianto idroelettrico della diga è stato messo fuori uso dai soldati del Califfo, mancano forni per il pane, medicine, medici, ospedali. Problema nel problema: ci sono bambini che per anni hanno subito il lavaggio del cervello jihadista, e non è chiaro che programma di deradicalizzazione usare perché sono tutti potenziali Baghdadi. Gordon dà uno spaccato atroce: “Fondamentalmente quello che c’è qui è un sacco di corpi in decomposizione, che attirano mosche, che pungono i bambini, che si infettano e si ammalano” gli ha spiegato a bordo di un Suv della forze speciali americane Al Dwyer, un alto funzionario con l’Agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati Uniti. “Ci sono topi, c’è un gran puzza” dice Dwyer, per questo la gente che è potuta scappare prima dell’arrivo dei baghdadisti adesso che gli occupanti sono stati scacciati non torna comunque.

Oltre agli effetti fisici dello Stato islamico, ci sono quelli psicologici da ricostruire.

Il vero test politico per Trump riguarda quindi la capacità di stabilizzare queste situazioni post-liberazione, senza accedere all’odiato – secondo la dottrina trumpiana – state-building. Tutte le operazioni sono lasciate in mano ai comandanti sul posto, che sono affiancati da consulenti del dipartimento di Stato e da esperti del corpo per gli Affari civili dell’esercito e cercano di aiutare i consigli amministrativi locali e preparano le forze di sicurezza che dovranno proteggere queste città dalle ondate di ritorno baghdadiste.

Uno degli inghippi nel gestire Tabqa (che si ricorda, fa da caso di studio, nel senso che nel resto della Siria vale la stessa situazione) è che il governo di Damasco ha sospeso il pagamento degli stipendi pubblici sotto l’occupazione jihadista. E non vuole riattivarli finché non avrà un adeguato livello controllo della città. Ma le forze siriane, spiega Gordon, sono bloccate dal poter entrare in città, ché è un’area di de-confliction decisa da Stati Uniti e Russia (ossia: ci sono gli americani e gli alleati americani, ‘gli assadisti sono pregati di stare alla larga’). Un altro problema è che gli eventuali aiuti umanitari via gomma, dovrebbero passare dalla Turchia (la strada più comoda e sicura), solo che Ankara ha chiuso i propri confini perché è in disaccordo con la strategia americana che usa i curdi siriani per liberare quel territorio dal Califfato. I turchi considerano i curdi siriani alleati del Pkk e dunque un’organizzazione terroristica.

Quello di Tabqa è un problema che riguarda una città di circa 50 mila abitanti: a Raqqa, poco più a est, ce ne sono più o meno quattro volte tanti.

(Foto: Wikipedia, le Sdf alzano la propria bandiera a Tabqa, marzo 2017)

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