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Vi racconto come traballa il consenso di Trump. Parla Smeltz (Chicago Council)

A un anno di distanza dalla clamorosa vittoria alle elezioni presidenziali di Donald Trump, il consenso del presidente comincia a traballare, persino all’interno del suo elettorato di ferro. Lo dimostra uno studio del Chicago Council on Global Affairs (CCGA), un prestigioso think-tank indipendente americano, dal titolo “What Americans Think about America First“. Abbiamo chiesto a Dina Smeltz, Senior Fellow e autrice del rapporto, che ha presentato martedì al Centro Studi Americani, quanto sia preoccupante per il Tycoon il quadro emerso dalle interviste ai cittadini statunitensi. Ecco la sua conversazione con Formiche.net:

Dal sondaggio del CCGA sembra che il presidente Trump abbia perso parecchi consensi da quando ha messo piede nella Casa Bianca. Se le elezioni presidenziali si tenessero domani si troverebbe in difficoltà?

È troppo presto per fare una previsione. L’approvazione nei confronti del presidente è bassa, intorno al 36-37%, ma non ha avuto un calo drastico dall’inizio del mandato. Al suo esordio per la corsa alle presidenziali Donald Trump era solo uno fra i 20 candidati repubblicani, prima che vincesse le primarie pochi nel GOP lo vedevano di buon occhio. Ma i repubblicani e i democratici tendono a supportare il candidato del partito chiunque egli sia: per questo nove repubblicani su 10 lo hanno votato alle elezioni, e lo stesso è accaduto con Hillary Clinton.

Sono abbastanza sicuro che Trump inserirebbe questo sondaggio nella sua lista di “fake news”..

Nessuna fake news, il Chicago Council ha condotto indagini sull’elettorato americano per più di 40 anni. Lo scopo primario di questo sondaggio era scoprire quanto i cittadini americani si rispecchiassero nella politica dell’amministrazione, specialmente nelle scelte di politica estera. E in particolare volevamo testare quanto l'”America First” di Trump avesse fatto presa sulla popolazione americana a sei mesi dall’insiediamento.

E cosa avete scoperto?

Che la maggior parte degli americani continua ad appoggiare il ruolo internazionale degli Stati Uniti e i loro alleati europei, a discapito della campagna anti-Nato di Trump, e soprattutto supporta il libero commercio.

Cosa ha spinto gli elettori di Trump a cambiare idea durante quest’anno?

I fattori chiave sono gli stessi che abbiamo rilevato nel sondaggio del 2016 fra i repubblicani pro-Trump e quelli avversi. Sono tre i temi su cui i suoi elettori vorrebbero un intervento più deciso: immigrazione, lavoro e commercio.

Quindi Trump perde consenso perché non riesce a mantenere le promesse fatte in campagna elettorale?

Credo sia presto per fare un bilancio. Le persone di solito non votano su temi di politica estera: se gli elettori di Trump sono arrabbiati è per la politica interna, specie sull’occupazione o sul controllo dei confini. Ad esempio sarà estremamente interessante scoprire cosa succederà con i negoziati per il Nafta con il Messico e il Canada.

Cioè si stanno accorgendo che il presidente non riesce a riportare negli Stati Uniti i posti di lavoro fuggiti all’estero?

A dire il vero Trump c’è riuscito già a pochi giorni dal suo insediamento a Capitol Hill. Fu il caso di una grossa azienda di balsami del Mid-West, la Carrier Corp., quando riuscì a convincere i proprietari a mantenere le fabbriche negli States, salvaguardando circa 800 posti di lavoro. Diverso è il caso di molte aziende che si sono spostate in Messico dopo le minacce di Trump al NAFTA. Il punto è che gli americani hanno una percezione distorta del mondo del lavoro: credono di rimanere disoccupati a causa del commercio, ma l’Economist ha provato che la maggior parte della disoccupazione americana è dovuta all’automazione. Cambiare gli accordi di libero scambio non riporterà nel Paese i posti di lavoro.

Il vostro sondaggio rileva che il 78% dei cittadini americani si dichiara a favore del libero commercio. Quindi la carta anti-trade di Trump gli si può ritorcere contro alle elezioni?

Tendenzialmente gli americani sono convinti che il commercio sia un mezzo per far diventare il loro Paese più prospero. Lo pensano sia i democratici che i repubblicani, solo che da due angolature diverse. I primi sono più favorevoli al commercio rispetto ai repubblicani, sono molto più aperti al Nafta, e credono che il protezionismo della presente amministrazione danneggi l’occupazione statunitense. I repubblicani vedono nel commercio la via maestra per rendere il Paese più ricco, sperano che l’amministrazione Trump implementi gli accordi commerciali favorevoli all’occupazione, ma anche che rinegozi quelli ritenuti sleali, come il Nafta.

Un altro risultato sorprendente che emerge dal sondaggio è un basso interesse del cittadino americano medio per il tema immigrazione. E cosa dice delle proteste del manifatturiero contro i lavoratori a basso costo immigrati dal Messico?

In effetti molti degli intervistati sono furiosi contro i messicani che entrano nel Paese illegalmente. In particolare non tollerano il fatto che queste persone non imparino l’inglese, perché questo impedisce loro di integrarsi. Tuttavia solo il 37% degli americani sostiene che l’immigrazione sia una seria minaccia per il Paese, si tratta di uno dei valori più bassi rilevati. Ovviamente le proporzioni cambiano fra repubblicani (61%) e democratici (20%), è un gap che va avanti da più di un decennio. Ma la maggioranza degli intervistati è convinta che questi immigrati irregolari debbano restare nel Paese, magari pagando una penale o addirittura incondizionatamente.

Quanto ha diviso l’elettorato la minaccia di Trump di annullare il DACA, il decreto di Obama che permette a milioni di immigrati adolescenti di restare nel Paese per lavorare?

La stragrande maggioranza dei cittadini americani supporta il DACA, tanto che Trump ha dovuto fare un passo indietro, rimandandolo al Congresso e fissando un ultimatum di sei mesi. Il tema è talmente divisivo che addirittura gli stessi supporters di Trump non si trovano d’accordo: il 45% è infatti contrario a deportare gli immigrati illegali che vivono da anni negli States. Allo stesso modo il Muslim Ban è risultato estremamente impopolare, eppure i media mainstream tendono a dare una visione distorta di questi due provvedimenti.

Il rapporto apre uno spaccato sulle divisioni interne all’elettorato repubblicano. Si aspettava tutta questa conflittualità?

Sicuramente le divisioni sono più ampie di quanto mi aspettassi. Faccio un esempio: il 49% dei repubblicani supporta il Nafta, che Trump minaccia di abbandonare, e di questi il 20% è costituito da elettori fedelissimi al Tycoon. Lo stesso si può dire per l’immigrazione irregolare: il 62% dei repubblicani anti-Trump trova giusto concedere la cittadinanza americana al termine di un percorso, mentre il 97% dei “Trump republicans” non ne vuole sentir parlare. Non diversamente i repubblicani si sono divisi sull’accordo di Parigi (Coop 21): il 53% dei repubblicani tradizionali si è schierato a favore, mentre degli elettori trumpiani solo il 23% voleva tenere in vita l’accordo.

Questa spaccatura interna al partito rischia di avvantaggiare i democratici alle elezioni di mid-term del novembre 2018?

Difficile da prevedere. Solitamente i repubblicani tendono a restare uniti su temi di politica estera. Ad esempio il Senato ha approvato all’unanimità una risoluzione a favore della Nato e dell’art. 5 della Carta dell’Onu. Credo che ci saranno scontri pesanti su questioni di politica interna, come la politica fiscale. Ma non è nulla di nuovo: alcuni anni fa proprio sul tema fiscale un gruppo di repubblicani ultraconservatori insorse contro il partito e l’establishment e formò il Tea Party. Negli Stati Uniti c’è da sempre un movimento anti-establishment, alle prossime elezioni molto dipenderà da cosa Trump sarà riuscito a portare a termine nel 2018.

(Foto: Flickr)

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