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Il ruggito America First di Trump contro il Pakistan

Trump

Due giorni fa il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha ruggito – via Twitter – contro il Pakistan: l’accusa, pesante, verso Islamabad è di non essere trasparente nei rapporti con i gruppi terroristici presenti nel proprio territorio.

Trump ha attaccato il governo pakistano perché riceve da anni milioni di dollari – il Prez dice “33 miliardi” negli ultimi 15 anni – di finanziamenti americani per combattere i gruppi islamici combattenti presenti nel suo territorio (sostanzialmente: i talebani locali che danno ospitalità ai leader qaedisti tra le montagne del Waziristan), e, come ha rincarato martedì l’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley (falco della politica estera America First): “A volte lavorano con noi, ma ospitano anche i terroristi che attaccano le nostre truppe in Afghanistan”, un “gioco che non è accettabile per questa amministrazione”. Il governo pakistano, offeso, ha diffuso uno statement alla fine di una riunione del Consiglio di sicurezza nazionale convocata d’urgenza martedì, definendo “incomprensibili” le parole di Trump in quanto “contraddicevano manifestamente i fatti”; l’accusa di Trump è forte anche nella scelta semantica, dice che in cambio di quegli aiuti americani il Pakistan ha dato soltanto “menzogne e inganni”. Islamabad ha anche risposto con un’infografica su Twitter, mentre sempre in un tweet il ministro degli Esteri pakistano ha sconfessato i miliardi dichiarati da Trump e convocato (in “un raro rimprovero pubblico” scrive il Guardian) l’ambasciatore locale americano, David Hale.

Quel “questa amministrazione” è la sottolineatura politica sulla questione. Gli aiuti al Pakistan – che Haley, davanti ai giornalisti del Palazzo di Vetro, ha annunciato di sospendere intanto per la tranche da 255 milioni in partenza – sono frutto di un accordo tra Washington e Islamabad risalente alla Guerra al Terrore dell’amministrazione Bush post-9/11, e sono parte di una visione classica repubblicana che consiste nell’usare il globalismo per preservare l’interesse nazionale. Combattere i terroristi a migliaia di chilometri di distanza dal suolo americano è un impegno internazionale contro i centri del terrore, e allo stesso tempo dovrebbe servire a risolvere il problema alla radice evitandone il contato con i confini Usa: questo genere di guerra è stata perseguita anche dall’amministrazione Obama, e condotta soprattutto attraverso il mix di intelligence sul campo, addestramento delle truppe locali, e azioni dei velivoli senza piloti che hanno permesso, negli anni, l’eliminazioni di diversi quadri dei gruppi armati.

Trump sottolinea che per il suo modo di vedere quest’impegno oneroso non può essere a senso unico e soprattutto non può permettersi la presenza di doppiogiochisti (come li ha chiamati Haley nel rimbalzo delle accuse). Va tenuto presente che l’affermazione non è tanto sghemba, se si pensa che da tempo ci sono sospetti su possibili link tra il cosiddetto Isi, il potente servizio segreto interno pakistano, e i gruppi armati, con cui condividono vicinanza nelle letture radicali politico-religiose e nell’osteggiare la presenza dell’invasore americano, e a volte hanno anche corrotti interessi economici in comune. Un nome su tutti: il network che mescola criminalità e terrorismo rappresentato dalla rete tribale della famiglia Haqqani; oppure ancora un altro esempio, il Mullah Mansour, leader dei talebani afghani è stato ucciso in Pakistan da uno di quei raid americani, e Washington crede che la guida spirituale si trovasse in territorio pakistano perché lì, insieme a diversi comandanti dei ribelli afghani, riceve protezione; o ancora Osama bin Laden, ucciso nel blitz dei Seals ad Abbotabad, dove viveva rifugiato in un compound all’interno della città (con il beneplacito dell’Isi che è da sempre un sospetto).

In un ri-equilibrio della presenza americana nel mondo sotto l’ottica America First, sembra allora più chiaro il motivo per cui il Pakistan finisce sotto accusa. Ma potrebbe esserci anche dell’altro. Islamabad negli ultimi anni, mentre riceveva aiuti dagli americani, si è avvicinata molto a Pechino. Aziende cinesi, spinte dai fondi statali del Dragone, investono miliardi in Pakistan: 56, in dollari, ce li ha messi il governo per creare il China-Pakistan Economic Corridor, che collega il paesi alla One Belt One Road nella problematica regione cinese dello Xinjiang.

Da tempo il prodotto nucleare del Paese sta finendo fagocitato da società a controllo statale cinese; o ancora, è notizia di questi giorni che in futuro, per gli scambi commerciali tra i due paesi, verrà utilizzato lo Yuan. Il 2018, secondo alcuni analisti, potrebbe essere l’anno in cui Trump inizierà davvero il gioco duro contro la Cina, e non è da escludere che nell’ottica imprenditoriale del presidente anche il Pakistan ci finisca in mezzo. Per esempio, per un commander in chief abituato agli affari, potrebbe non essere concepibile che Islamabad riceva aiuti da Washington, ma chieda la collaborazione delle ditte cinesi, e non americane, per gestire i propri business.

La linea Trump è comunque espressione, dalla retorica più dura, di posizioni non nuove: da tempo gli Stati Uniti e la Cina giocano le proprie influenze nel sud-est asiatico, e Washington si è notevolmente avvicinato all’India – che ha una partita aperta su contese territoriali col Pakistan – proprio in contrasto con le partnership che Islamabad ha siglato con Pechino. Per inquadrare la questione, basta seguire altre reazioni. Jitendra Singh, portavoce dell’ufficio del primo ministro indiano, ha detto che il commento di Trump ha confermato la posizione dell’India sul terrorismo e “il ruolo del Pakistan nel perpetrare il terrorismo”; il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Geng Shuang, non ha menzionato gli Stati Uniti quando gli è stato chiesto durante un briefing sul tweet di Trump: “Abbiamo detto molte volte che il Pakistan ha fatto grandi sforzi e ha fatto grandi sacrifici nella lotta al terrorismo”, e “ha dato un contributo importante agli sforzi globali contro il terrorismo” dicono dalla Cina.

 

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