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Così Maurizio Rossi racconta Gillo Dorfles

Di Maurizio Rossi

Testo tratto dal catalogo (Skira 2015) della grande mostra antologica a cura di Achille Bonito Oliva “Gillo Dorfles. Essere nel tempo” (MACRO – Museo d’Arte Contemporanea Roma, 27 novembre 2015 – 13 marzo 2016), ideata e realizzata da Fulvio Caldarelli e Maurizio Rossi del Centro interdisciplinare di ricerca sul paesaggio contemporaneo come omaggio all’opera totale del padre storico della cultura visiva italiana del Ventesimo secolo

Gillo (al secolo Angelo) Dorfles, nasce il 12 aprile 1910 a Trieste. Il padre ingegnere navale, originario di Gorizia, si era trasferito nella città porto dell’Impero austro-ungarico assieme alla moglie, di famiglia genovese, conosciuta durante gli studi universitari nel capoluogo ligure.

Con l’inizio della prima guerra mondiale, le crescenti ostilità nei confronti dei cittadini italiani inducono la famiglia a rifugiarsi a Genova. Al termine del conflitto, Dorfles rientra a Trieste dove fin da giovanissimo entra in contatto con l’intellighenzia di una città che, sebbene “già Italia”, continuava a brillare per vocazione mittleuropea: “Se ci si inoltrava per i vicoli lastricati della Città Vecchia, si poteva sentire la cantilena triestina mescolarsi alla lingua slava e a quella tedesca. A completare questo affascinante mèlange c’erano una ricca e popolosa colonia ebraica, il cuore artistico e intellettuale della città, e una variopinta colonia greca, da cui provenivano le famiglie più facoltose”. È ancora un bambino quando varca la soglia della piccola libreria di Umberto Saba, primo incontro con il padre di colei che si rivelerà una delle sue più fedeli amiche, Linuccia. Dorfles ha appena iniziato il ginnasio quando nei pomeriggi trascorsi a casa Saba conosce Bobi Bazlen, scout letterario ante litteram e futuro fondatore dell’Adelphi. Bazlen accompagna la sua iniziazione intellettuale introducendolo al salotto borghese di Elsa Dobra e agli appuntamenti domenicali di Villa Veneziani dove, insieme a Ettore Schmitz (alias Italo Svevo) genero della padrona di casa Olga, si riuniscono amici letterati come Giacomo Debenedetti, Leo Ferrero e Eugenio Montale. L’ambiente culturale triestino degli anni Venti mantiene un rapporto privilegiato con i circoli viennesi, e Dorfles – lettore precoce e poliglotta per merito di genitori che leggevano in francese, inglese e tedesco – matura la propria formazione letteraria sulle pagine di Kafka, Proust, Kraus, Wedekind, Strindberg, Splenger e Kriss. Legge Freud quando nel “Regno” la psicoanalisi non è ancora divenuta una moda, studia l’Ulysses di Joyce che esule dall’Irlanda aveva insegnato alla Berlitz School di Trieste. È in questi stessi anni, intervallati dalle vacanze estive a Gorizia dal nonno paterno (direttore del Teatro Verdi di Gorizia e amico del maestro Ferruccio Busoni), che Dorfles condivide interessi e frequentazioni mondane con altri giovani triestini come Leo Castelli e Leonor Fini.

Nel 1928 si iscrive alla facoltà di medicina di Milano. Il soggiorno si rivela occasione per vivere in prima persona una stagione artistica e letteraria milanese in pieno fermento: tramite l’amico d’infanzia Ernesto Rogers frequenta il gruppo BBPR (Banfi, Belgioioso, Peressutti) e architetti razionalisti come Zanuso e Viganò. Presentato da Bobi Bazlen, conosce letterati come Piero Gadda Conti e Titta Rosa che lo invita a collaborare con la rivista L’Italia letteraria dove pubblica i suoi primi scritti di critica d’arte, a cui si aggiungeranno articoli per Le Arti Plastiche. Durante un viaggio in Germania e in Nord Europa approfondisce la conoscenza dell’espressionismo tedesco e resta folgorato dalle opere di Kandinskij e Klee. Nel capoluogo lombardo incontra artisti come Soldati e Bucci ed è tra i primi a riconoscere il valore di Lucio Fontana, ancora considerato nient’altro che un bravo artigiano.

A questo periodo risalgono le esercitazione di tecnica pittorica praticate da Dorfles nello studio dell’amico pittore Leonardo Borgese, dove si cimenta con il disegno dal vero. Trascorsi i primi tre anni a Milano decide di proseguire gli studi universitari a Roma, per specializzarsi nell’unica branca della medicina che lo interessa: la psichiatria. Nella Roma degli anni Trenta, frequenta l’ambiente artistico bohèmien di Via Margutta e del Caffè Rosati di Piazza del Popolo, ma anche i tè-incontri della baronessa De Renzis a capo del circolo steineriano della Capitale, corrente di pensiero che Dorfles conosce già da tempo, visto che la madre era membro della Società Antroposofica. Allievo interno nella clinica diretta da Cesare Frugoni, consegue la laurea nel 1934, concludendo un percorso che ammette di essersi imposto: “non so ancora bene se per puntiglio o se per una autentica volontà di fare il medico, che credo non sarà mai soddisfatta (troppi altri interessi incombono)”. Nello stesso anno si reca a Dornach per seguire un ciclo di conferenze al Goetheanum, il centro studi di Rudolf Steiner vicino Basilea.

Nel 1935 svolge il servizio militare a Torino nei dragoni del Reggimento Nizza Cavalleria, periodo in cui attraversa la cerchia nobiliare e intellettuale torinese dominata da Felice Casorati, stringendo amicizia con Carlo Levi e Paola Levi Montalcini. Nel 1936 sposa Chiara “Lalla” Gallignani, figlia del direttore del Conservatorio di Milano, Giuseppe Gallignani, grande amico di Toscanini. L’anno seguente si trasferisce nuovamente a Milano. Trascorre gli anni della Seconda guerra mondiale a Lajatico nelle campagne del volterrano, nella casa di famiglia. Qui si dedica alla pittura e alla produzione delle prime terrecotte realizzate nella fornace della tenuta, in gran parte andate distrutte durante i bombardamenti. Agli anni dello “sfollamento” in Toscana risalgono anche le poesie rimaste a lungo inedite, ad eccezione delle quattro inserite da Sergio Solmi, già nel 1950, nella Prima antologia di Poeti Nuovi del 1950. Mai pubblicato, e andato perduto, il romanzo Lo specchio etrusco.

A Milano, nell’immediato dopoguerra, Dorfles riprende a scrivere di arte ed estetica: chiamato da Dino Buzzati pubblica il primo articolo su La lettura il 17 aprile 1946, collabora poi con Domus (di cui sarà vicedirettore), Il Mondo, La fiera letteraria, Marcatrè.

La vicinanza alla Konkrete Kunst zurighese di Max Bill e Max Huber, l’intenso dialogo con amici svizzeri come Richard Paul Lohse, Camille Graeser e Alfred Roth, costituiscono le premesse di una posizione estetica di carattere internazionale che nel 1948 lo porterà a fondare – con Monnet, Soldati e Munari – il Movimento per l’arte concreta, come moto di liberazione dalla dittatura italiana del figurativismo. Dorfles espone la proprie opere in Italia e all’estero, in mostre collettive e personali, aderendo anche alla sezione italiana del Gruppo Espace. Allo stesso tempo, in qualità di critico ed estetologo, si fa interprete attivo delle nuove istanze teoriche e critiche all’origine di astrattismo e concretismo, senza temere sconfinamenti nei territori del nascente design e delle fenomenolgie del consumo di massa. Nel 1951, anno di pubblicazione di Barocco nell’architettura moderna, Enzo Paci fonda la rivista Aut Aut e lo chiama accanto a sé come unico redattore. L’anno seguente dà alle stampe Discorso tecnico delle arti, paradigmatico già nel titolo dell’innovativo approccio critico ed estetico anti-idealistico inaugurato da Dorfles, in alternativa alle normative di Benedetto Croce che, infatti, non tarda a scrivergli “una letterina (che mi ha molto lusingato!), per dirmi che apprezza il mio lavoro, ma – dopo quello che lui stesso ha scritto a proposito di tecnica e arte – ritiene che la mia posizione sia del tutto sbagliata. È il miglior complimento che potesse farmi! In compenso ricevo letterine molto elogiative da Munro, Herbert, Read, Holdin e altri, ai quali avevo spedito il volume”.

Nel 1953 compie un denso travel grant negli Stati Uniti durante il quale, tra gli altri, conosce Mies Van der Rohe e Frank Lloyd Wright. A New York ritrova l’amico d’infanzia Leo Castelli, divenuto famoso gallerista. Dorfles si reca nello studio di Mark Rothko: “nessuno lo conosceva, non apparteneva ancora al mondo dell’arte, ma mi sono subito reso conto della qualità straordinaria dell’uomo, della sua sensibilità: ecco, prima l’uomo poi le opere”.

Nel 1955, intraprende come libero docente la carriera universitaria, quando le cattedre di estetica sono ancora una novità nel panorama accademico italiano. Insegna principalmente alla Statale di Milano, ma anche a Trieste e Cagliari. È visiting professor nelle università di Cleveland, Buenos Aires, Città del Messico, New York ed è invitato da Thomas Maldonado a tenere seminari alla Scuola di Ulm.

Nel 1958, chiusa ufficialmente l’esperienza del M.A.C., ma non certamente l’attività artistica di Dorfles, esce la prima edizione de’ Le oscillazioni del gusto e l’arte moderna, seguito da Il divenire delle arti (1959), Ultime tendenze nell’arte d’oggi (1961) autentico best seller dell’epoca stampato in 25.000 copie, Simbolo comunicazione consumo (1962), Il disegno industriale e la sua estetica (1963), Nuovi riti e nuovi miti (1965). Cura la traduzione e sostiene la pubblicazione in Italia del fondamentale Art and visual perception di Rudolf Arnheim. Nel 1963, insieme a Edoardo Sanguineti, Renato Barilli, Umberto Eco, Alberto Arbasino e altri protagonisti della cultura italiana, partecipa alla costituzione del Gruppo 63. Soltanto nel 1967, con la pubblicazione del saggio L’estetica del mito. Da Vico A Wittgenstein, gli viene riconosciuto l’ordinariato in Estetica: “Ricordo che grazie a un suggerimento del mio amico Enzo Paci mi rassegnai a scrivere un’opera “scientifica”, L’estetica del mito, in cui mi occupavo di Schelling, Hegel, Vico, ossia di “autentici” filosofi del passato. Era un libro “serio”, accademico. Fino a quel momento mi ero occupato di argomenti meno impegnativi e contemporanei. Quella pubblicazione mi permise di ottenere la cattedra”. Se nel 1958 è il primo in Italia a definire il concetto di Kitsch (pubblicando, nelle pagine de’ L’oscillazione del gusto e dell’arte moderna, il riadattamento della relazione tenuta nei primi anni Cinquanta alla Western Riserve University e al Cleveland Museum, in Ohio), con Kitsch. Antologia del cattivo gusto (1968) Dorfles contribuisce in modo decisivo a definire, anche a livello internazionale, il significato di questa categoria estetica; un’esplorazione ripresa nel 2012 con la curatela della mostra Kitsch. Oggi il Kitsch a La Triennale di Milano.

La sterminata bibliografia di Dorfles annovera oltre 2.500 pubblicazioni. Monografie, contributi in volumi collettivi, articoli e saggi: titoli che hanno segnato il dibattito culturale in Italia e all’estero, come Introduzione al disegno industriale (1972), Dal significato alle scelte (1973), Moda & Modi (1979), L’intervallo perduto (1980), Elogio della disarmonia (1986), Il feticcio quotidiano (1988), Fatti e fattoidi. Gli pseudoeventi nell’arte e nella società (1997), Horror pleni. L’(in)civiltà del rumore (2008), Gli artisti che ho incontrato (2015), Paesaggi e personaggi (2017).

Negli anni Settanta, a causa degli impegni didattici e dell’intensa produzione critica, l’attività grafica sostituisce quasi completamente quella pittorica, poi ripresa ininterrottamente con rinnovata intensità a partire dai primi anni Ottanta fino ai nostri giorni. Dagli anni zero, forse in virtù di un clima meno ostile all’eclettismo esistenziale impersonato da Dorfles, la sua produzione artistica è tornata ad essere oggetto dell’attenzione di critica e pubblico.

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