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Dal dramma migranti alla drammatizzazione. Parla il vescovo Mogavero

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C’è una zona del nostro Paese della quale si è parlato poco in questi giorni. Eppure i suoi abitanti sono coinvolti in prima persona in quanto va accadendo con l’emergenza profughi. È la Sicilia. Vescovo siciliano, da anni alla guida di una diocesi in prima linea  su  quello che è diventato il fronte del Mediterraneo, quella di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero constata che la situazione è cambiata da quando gli sbarchi non avvengono più a Lampedusa, da dove dopo le prime cure si procedeva: ora sbarcano a Trapani, a Catania, magari anche in altri porti, e così la percezione del fenomeno, in costante diminuzione rispetto agli anni passati, cambia.

“Il problema è politico e umanitario. Dal punto di vista umanitario la Chiesa può fare molto e fa molto, con la Caritas, i centri d’ascolto, le parrocchie e altro. Dal punto di vista politico non è compito nostro, ma non si può non constatare che il sistema Paese non può andare in panne per 100mila persone, quante sono le persone sbarcate in Italia nel corso di un anno, che si vanno ad aggiungere ad un totale sette o otto volte tanto. In Germania è arrivato un milione di persone nel giro di due anni e il sistema Paese ha retto. Non parliamo poi di altri Paesi, come Libano o Giordania, dove i profughi parliamo di ben altri numeri che rapportati a quelle popolazioni portano a percentuali qui inimmaginabili. L’Italia, un Paese con 60 milioni di abitanti, si inceppa per 100mila persone? Dobbiamo renderci conto del fenomeno e delle sue reali dimensioni, elaborando vere politiche di sistema. C’è una drammatizzazione oggettiva che dipende però anche da una carenza: l’accoglienza non ha saputo affrontare il problema del dopo.”

Monsignor Domenico Mogavero non nasconde la sua preoccupazione: “Non ci fa paura non essere in sintonia, ma ci preoccupa. Ci preoccupa perché vediamo come il bombardamento mediatico stia cambiando la natura, l’indole, l’atteggiamento anche degli accoglienti siciliani. Bisognava porsi da tempo il problema del dopo accoglienza, perché è del tutto comprensibile che in un paesino vedere arrivare venti o trenta persone in difficoltà è un conto, vederli per tanto tempo ciondolare tutto il giorno intorno alla piazza senza nulla da fare è un altra. Qui si deve avere l’onestà di dire che questa attesa di Godot, se viene spezzata, viene spezzata dal lavoro nero, che porta questi uomini come noi a lavorare da mattina a sera nei campi per 3 euro al giorno, o dalla criminalità organizzata, che li schiavizza inserendoli in quel circuito perverso. Vede, so bene che un tempo c’è stato il modello Mazara, ma quell’integrazione ha funzionato alla perfezione perché trovavano subito lavoro sui nostri pescherecci, e quando un uomo ti vive accanto in barca tutta la notte non è più percepito come un nemico, un pericolo. Oggi però tutto questo non c’è più.”

Troppo semplice chiedere se non possano essere istruiti la mattina, in modo da apprendere almeno la lingua, in cambio di un’attività socialmente utile, da servizio civile, nel pomeriggio. “Non lo so, non ne conosco i risvolti normativi, ma la carenza progettuale sul dopo potrebbe essere anche questa. Comuni in enormi difficoltà, a volte disastrati, dovrebbero pensare, progettare, vedere, immaginare, investire per trasformare un problema in una risorsa. E gli stessi migranti saranno contenti di stare tutto il giorni senza far nulla in piazza? Era questo il sogno che hanno inseguito partendo? Ma al di là di questo, dell’incredibile impreparazione europea, il nostro sistema paese, ripeto, non può tremare davanti a sbarchi che si sono ridotti a 100mila persone in un anno.”

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