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La Turchia mette fine allo stato di emergenza. Per finta

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La Turchia fa finta di levare lo stato di Emergenza che è stato in vigore in questi due primi anni dopo il golpe fallito del luglio 2016. Ma, di fatto, a meno di un mese dalla vittoria nell’election day dello scorso 24 giugno, il presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan si sta trasformando nel padrone assoluto del Paese, ruolo che in qualche modo ricopriva già, ma che adesso gli viene riconosciuto anche dalla legge.

Il parlamento non ha votato l’ottavo prolungamento trimestrale dello Stato di Emergenza, che quindi è scaduto alla mezzanotte. Questo però non significa che la Turchia abbia recuperato una normale quotidianità. L’Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo del presidente Erdogan, ha già pronta una proposta di legge, che di fatto prolungherà alcune prerogative per lo Stato di emergenza per altri tre anni, soprattutto per quanto riguarda i poteri dei prefetti e l’organizzazione di manifestazioni di protesta.

La motivazione è sempre la stessa: combattere il terrorismo, inteso come terrorismo di matrice curda e gulenista. Chi sperava che, con la sua consacrazione finale, Erdogan avrebbe allentato la presa, insomma, si sbagliava.

Da quando è stato eletto, le prime mosse sono andate in un’unica direzione. Con i primi decreti presidenziali, il Paese ha iniziato a smantellare la ‘vecchia’ repubblica parlamentare e tutte le deleghe che per legge erano dell’Ufficio del Primo Ministro, che non esiste più, sono passate alla Presidenza della Repubblica. In questo modo, l’attuale capo di Stato è riuscito a mettere le mani sulla Direzione generale per la Stampa e l’informazione, che controlla non solo la distribuzione per le tessere stampa nazionali, ma anche gli accrediti dei giornalisti stranieri. Erdogan si è assicurato ufficialmente anche la nomina dei rettori degli atenei e qui c’è una novità importante, perché per la prima volta potranno dirigere le università anche persone senza un passato accademico. Finiscono fra le prerogative presidenziali anche le nomine dei direttori dei teatri di prosa e di ballo statali.

Il colpo più importante, però, rimane quello inferto allo Stato maggiore, che domenica scorsa è passato sotto il controllo del ministero della Difesa. Questo, in sintesi, significa che i militari sono stati definitivamente messi sotto il controllo delle cariche politiche civili. Nello specifico del Presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan. Si trattava di una mossa attesa da tempo. Il 9 luglio Erdogan aveva nominato l’ex capo di Stato maggiore, Hulusi Akar, ministro della Difesa. Era il segnale che mancava poco alla stretta finale alle Forze Armate, che, insieme con la magistratura, per anni hanno rappresentato l’unico vero pericolo per la scalata al potere del leader islamico.

Le purghe contro presunti affiliati al network di Fethullah Gülen, ex imam in autoesilio negli Stati Uniti, nemico numero uno di Erdogan e accusato di essere dietro al golpe del 2016, continuano e proprio nei giorni scorsi hanno fatto segnare altri 18.500 licenziamenti fra pubblica amministrazione, mondo accademico e forze dell’ordine. Contemporaneamente, Ankara ha annunciato nuove assunzioni nella burocrazia per andare a compensare le oltre 150mila persone che non hanno più un lavoro e le migliaia che sono in attesa di processo, a volte in regime di carcerazione preventiva.

Segno di una Turchia che sta cambiando pelle non solo nella gestione delle istituzioni e delle realtà più importanti del Paese, ma anche in chi lavorerà a questo nuovo progetto. L’ascensore sociale messo in moto dalle purghe presidenziali consente non solo di liberarsi dalle presenze sospette, ma anche la costituzione di un ampio, interessato, consenso.

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