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A regola d’arte

Dall’inizio del 2010 automobilisti e (rari) pedoni di Los Angeles incrociano una singolare mostra d’arte concettuale a cielo aperto dal titolo How many billboards. Di insolito c’è che le opere di 21 giovani talenti artistici losangelini hanno preso il posto solitamente occupato dai grandi poster pubblicitari. Quegli spazi che il pubblico magari vede non sapendo di vedere e consapevolmente evita di guardare, invertono grazie a questa iniziativa il loro rapporto con la gente, che li scopre, li cerca, li osserva. Questo “scambio di ruoli e residenze” tra arte e pubblicità mi fa tornare alla mente una storia emblematica. Di cosa lo dirà il lettore.
Era la torrida estate 1977 quando i manifesti di Torino si trasformarono in grandi riproduzioni di quadri dei musei della città. Veronese e Van der Wejden, un grande Pellizza da Volpedo, un collage di Max Ernst, rinviavano con l’intrigante piccola scritta “Dai musei di Torino ai muri della città” a una visita ai luoghi di residenza delle opere. Ne scrisse Il Corriere della Sera, La Stampa e la Repubblica. Ne parlarono le radio, Panorama dedicò un’intera pagina. Qualcuno si domandò cosa ci fosse dietro e dunque comprese poco quel che aveva davanti agli occhi. Insomma l’evento attirò curiosità e consensi, ma nessuna azienda o agenzia di pubblicità o assessorato alla cultura ebbe l’idea di imitarla; pensare che non era costata niente a nessuno. Nel 2001 gli stessi autori ci riprovarono. Questa volta i grandi manifesti diedero maggior spazio all’arte moderna, e ancora una volta consensi diffusi e latitanza assoluta di auspicabili tentativi d’imitazione. Ed ecco, 33 anni dopo, l’idea riprodursi a Los Angeles, California; dunque con concrete prospettive di repliche e di futuri e benvenuti imitatori. Non ci giurerei neppure questa volta…
 
Come traspare, chi scrive ebbe a che fare con quell’iniziativa di 33 anni fa. Eravamo un’agenzia di pubblicità sgomitante. Il nome, rigorosamente acronimo era Cgss creativi associati; che divenne poi Bgs Barbella Gagliardi Saffirio. Denominazioni egalitarie; se avessimo potuto avremmo abolito anche le maiuscole. Figli, degeneri nel mio caso, del ‘68, credevamo di potere e di dovere cambiare il mondo. Ci provammo anche così, con l’arte in strada nei mesi estivi. Quale relazione esiste tra arte e pubblicità? Ne esiste innanzitutto una storica e genetica: senza gli artisti figurativi, la pubblicità non sarebbe nata. Quando nasce? Nasce con la modernizzazione napoleonica. Nel 1800 Bonaparte detterà al pittore Jacques-Louis David il primo briefing di comunicazione della storia moderna: «Voglio essere raffigurato calmo in sella a un destriero focoso». Nasce così quell’icona che dopo aver invaso le case di Francia presidierà stabilmente le pagine nei libri di storia della nostra scuola media. Bonaparte inventerà il merchandising imperiale (le sue immagini su carta e quei busti in bronzo o gesso reperibili oggi nei marchés aux puces), e il primo logo della storia: quella “N” così marchiante che sarebbe piaciuta a Armando Testa. Personalmente ritengo che abbia inventato anche la Tav, il Concorde, la Grande Distribuzione e internet. Sicuramente inventò i jingles, le musiche per far marciare velocemente le truppe e scandire i tempi delle battaglie; e i libri pocket per la biblioteca essenziale di classici miniaturizzati che si fece produrre per leggere la notte nella tenda militare.
 
Finito l’ancien régime, gli artisti con la disinvoltura propria degli intellettuali, avevano trovato un nuovo committente: la classe dirigente della rivoluzione borghese che, in quanto borghese, sapeva maneggiare commerci e industria. E saprà servirsi della réclame che non a caso porterà a lungo un nome francese.
Per il primo secolo di vita la pubblicità sarà dominio esclusivo degli artisti, da Jules Chéret, padre del manifesto moderno e inventore della cromolitografia, a Henri de Toulouse-Lautrec. La Belle Epoque e l’invenzione del cinema nel 1895, spettacolo industriale per antonomasia, frutto della prima convergenza tecnologico/mediatica, lanceranno nuove sfide espressive agli artisti dell’affiche: raccontare il sogno, l’emozione, la passione di un film o di un prodotto, riassumendo il tutto in un’immagine. Leonetto Cappiello e Alfons Mucha in Francia e in Italia Marcello Dudovich, Adolf Hohenstein, creeranno capolavori di sintesi espressiva che suscitano ammirazione ancora oggi, stimolando crescenti appetiti collezionistici. Compaiono nuovi soggetti intellettuali. Quelli che fissano gli obiettivi, che escogitano artifici, i primi manipolatori insomma. Agli artisti figurativi si uniscono scrittori e poeti. Per restare in Italia, Gabriele D’Annunzio darà vita a una vivace e remunerativa collaborazione con la réclame, il cui risultato più celebre è il nome La Rinascente. Meno noto è che creò anche il nome Saiwa. Il Vate lavorò molto anche per il senatore Agnelli, ma di questa collaborazione e delle relative prebende non mi rimane che la memoria di una frase leggendaria appresa da testimoni dell’epoca: “Quod scripsi scripsi” in risposta alla richiesta di modificare una frase da parte del fondatore della più grande impresa italiana. Insieme ai poeti multimediali, ecco le adorabili teste calde del futurismo. Per loro, per i simpatici invasati come Marinetti e Depero, la pubblicità è anch’essa velocità, ebbrezza della modernità. È un appuntamento col destino quello tra futuristi e pubblicità; mai finora adeguatamente approfondito. Fortunato Depero dichiarò: «L’arte del futuro sarà potentemente pubblicitaria». Pensava alla Pop Art? Nel 1930 Depero proclamerà nel suo manifesto Il futurismo e l’arte pubblicitaria, la pubblicità come «una forma d’arte popolare che vive nelle strade mentre l’altra arte è destinata ad essere sepolta nei musei».
 
Negli Usa le grandi firme della letteratura, Francis Scott Fitzgerald, Norman Sinclair, Raymond Chandler, Sinclair Lewis tra gli altri, portavano il loro contributo alla nascente advertising industry.
E poi, prima che il nuovo conflitto mondiale divampi, René Magritte. Affascinato dal cubismo, poi dal futurismo, infine dal surrealismo, abbinerà al lavoro di artista quello di autore di manifesti pubblicitari e stand per esposizioni. Magritte, ai cui paradossi visivi ogni art director pubblicitario si è ispirato almeno una volta nella vita, aprirà addirittura a Parigi una propria agenzia, la Dongo. La pubblicità scoprirà la fotografia (o forse sarebbe meglio dire viceversa) e i più importanti autori da Sam Haskins a Oliviero Toscani contribuiranno con le loro immagini ad accrescere charme e provocatorietà della “poesia delle merci”. E venne il momento della Pop art, l’arte della società dei consumi. Un fenomeno, la Pop art, che collocherà la pubblicità al centro dell’ispirazione del nuovo movimento che nasce anglo-americano ma avrà seguaci in tutte le parti del mondo omologate dal sistema di vita occidentale. La Pop art fu una restituzione, un reciproco riconoscimento tra arte e pubblicità. Senza dubbio il più autorevole e definitivo. Da campo di lavoro degli artisti, la pubblicità si trasforma così in fonte d’ispirazione artistica. Il cerchio si chiude ed anche qualsiasi discussione sulla legittimità della relazione.
 
Poi la pubblicità conquisterà la televisione e affluirà una nuova categoria di artisti: registi, musicisti, direttori della fotografia. Gente di cinema, nomi come Ridley Scott, che soprattutto nei Paesi anglosassoni contribuiranno alla messa a punto di quella ricercata forma poetica e singolare struttura retorica che è il commercial. E con l’era informatica ecco nascere la videoart e le sue stupefacenti derivazioni in Rete. Siamo ad oggi. Oggi la pubblicità soffre, come la mente umana, di un eccesso di segnali e d’interferenze. L’uomo di fine ‘800 e di gran parte del ‘900 era incomparabilmente libero da aggressioni visive. Anche per la classe colta le immagini erano poche. Per i ceti poveri, poi, l’universo figurativo era costituito dai dipinti delle chiese, in seguito dai manifesti d’artista e infine dalla tv pedagogica degli anni ‘50. L’uomo d’oggi ha la mente affollata di stimoli visivi, in larga parte non interiorizzati e spesso inutili. Una tregua, utopistica peraltro, nel propinare e nel subire immagini sarebbe salutare al pari di altre forme di astinenza.
La pubblicità satura e saturante segna il passo. Anche l’arte sembrerebbe. Ogni cosa è già stata vista, ogni provocazione è stata già sperimentata. Eppure mi sentirei di azzardare che una nuova vitalità e un nuovo universo d’ispirazione per la pubblicità (e non soltanto) stiano formandosi proprio sotto la pesante coltre di questo tempo d’inquietante stasi.
E ancora una volta le sensibili antenne degli artisti, forse di nuove figure di artisti, faranno la loro parte.
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