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Tasse e giustizia sociale, esplorare nuove soluzioni

È di tutta evidenza come la crisi abbia determinato in Europa un grave indebolimento delle finanze pubbliche. Nel 2010 l’ammontare dei debiti pubblici nell’Ue si è avvicinato alla ricchezza prodotta dagli Stati stessi (l’indebitamento lordo pubblico ha raggiunto, a livello aggregato, l’85% del Pil nell’area dell’euro, l’80% in tutta l’Unione). Per i prossimi anni è richiesta ai governi nazionali un’intensificazione degli sforzi nell’azione di risanamento dei conti pubblici, attraverso misure correttive “concrete”.
Da un lato, vincoli di bilancio sempre più stringenti, dall’altro lato, un quadro ormai chiaro dei danni della crisi economica.
Meno evidenti però sono gli effetti della crisi sul versante della giustizia sociale: la crisi ha accentuato in molti Paesi (quali Cina, India, Usa) le differenze sociali in termini di distribuzione del reddito e di esclusione sociale. La povertà costituisce più di prima il “male” silente, oscurato, se non demonizzato, dal fideismo nella globalizzazione dei mercati degli anni ´90 e dall’“oltranzismo” a favore della formula “crescita=benessere per tutti”.
 
In Europa la situazione non è altrettanto confortante. Prima della crisi (2007), 78 milioni di persone erano a rischio di povertà, di cui 19 milioni bambini; in cinque anni (2005-09) è aumentata la popolazione povera nei Paesi della “vecchia” Europa a 15. Nel pieno della crisi (2009), il dato delle persone al di sotto della soglia di povertà è pressoché stabile, anzi in leggero miglioramento: 16,3%, rispetto a 16,5% dell’anno precedente. Ma il sistema stesso di rilevazione può risultare lacunoso, basandosi sul reddito del Paese: in periodi di ciclo economico avverso, gli indicatori possono paradossalmente mostrare una riduzione dell’area della povertà per effetto della contrazione generale dei redditi.
Quando poi si passa dagli indicatori di povertà in termini di redditi ad indicatori qualitativi del being and doing, la situazione di disagio sociale in Europa è evidente: il 17,2% della popolazione nel 2009 ricade nella definizione di “privazione materiale”, cioè al di sotto dello standard di vita considerata come qualificazione minima per l’appartenenza alla comunità. Ma quello che emerge con maggiore gravità è il fenomeno – sconosciuto negli anni passati – della povertà tra le forze lavoro: nel 2009, su 100 europei che lavorano, 8 sono poveri. In Italia i working-poor superano il 10%, con un trend in crescita, in controtendenza rispetto all’Europa.
 
Che fare? Quali politiche sociali? La crisi economica ci ha imposto un ripensamento degli obiettivi e degli strumenti anche nella politica fiscale: sull’esigenza di ridurre il gap di diseguaglianza convergono ormai sia le tesi del “neocapitalismo sociale”, secondo cui l’assenza di sperequazioni sociali consentirebbe una migliore qualità della vita a tutta la società, sia le dottrine di ispirazione cattolica a favore di un rinnovamento dei codici economici e etici.
Nelle agende politiche si ripropongono con rinnovata enfasi gli interrogativi classici, di matrice einaudiana, sulla migliore scelta tra “abbassamento delle punte” o “innalzamento dal basso”. Se si pensa all’Italia la riduzione di un punto percentuale dell’aliquota Irpef del primo scaglione (dal 23 al 22%), pur avendo un effetto inavvertibile per i contribuenti, costerebbe all’erario circa 1 miliardo di euro.
Dai lavori nell’Unione europea si delineano due principali traiettorie nell’area della fiscalità: l’accettabilità politico-sociale dei nuovi prelievi, in grado di colpire settori che per l’opinione pubblica devono subire, più di altri, un maggior peso della tassazione; la destinazione speciale (cd. earmarking) delle corrispondenti entrate, in quanto dirette alla copertura di spese “socialmente” meritevoli.
In presenza di elevati livelli di pressione fiscale, una politica redistributiva attiva richiede un “lavoro di rimotivazione da compiere per dare un orizzonte convincente alla dose di sacrifici che bisogna affrontare”, secondo le parole del Cardinale Bagnasco alla Cei. L’accettabilità sociale dell’imposta diviene una componente essenziale, che richiede un’esplicitazione, una sorta di pactum in re ipsa.
 
La tassazione di scopo può essere un possibile modello impositivo in grado di affiancare i sistemi tradizionali a favore di una maggiore giustizia sociale. L’imposta di scopo, basata sulla triade imposizione-destinazione di gettito-beneficio, ha avuto eco in Italia nell’ambito del dibattito sul federalismo. Una prima forma è stata introdotta con la legge finanziaria 2007, anche se non molti Comuni hanno ritenuto di adottarla. La crisi ha riposizionato tutti gli elementi di contesto perché si possa esplorare un’imposta di scopo il cui gettito sia destinato, in aggiunta agli altri interventi, ad un fine sociale, quale la lotta all’esclusione sociale.
Senza entrare nei dettagli, la base imponibile potrebbe essere costituita da elementi specifici della ricchezza (la ricchezza immobiliare), ma si tratterebbe di un’ipotesi del tutto diversa da quelle avanzate nel corso del dibattito recente a favore della “patrimoniale” o della property tax, finalizzate ad abbattere il debito pubblico. Un’imposta di scopo sui generis potrebbe coniugare il filantropismo delle nuove generazioni con il prelievo sui grandi patrimoni: la volontarietà del contribuente, sebbene assente dell’an del prelievo, potrebbe essere preservata nel quomodo, garantendo al soggetto inciso la possibilità di scegliere il beneficiario finale (ad es. ospedali pubblici, case di cura, onlus di settore). Si tratterebbe di esplorare un nuovo modello impositivo, ispirato, nella sostanza, al noto meccanismo del 5 per mille con riferimento all’indirizzamento delle risorse raccolte. La nuova tipologia di imposta, adottabile a livello statale o locale, potrebbe contribuire, se non ad innalzare la propensione a pagare le imposte, ad accrescere nella comunità sociale il giudizio di riprovazione all’evasione dei “soliti ignoti”.
 
Le opinioni sono espresse a titolo personale e non sono in alcun modo attribuibili all’Istituto di appartenenza
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