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Ma la minaccia resta

Se al Qaeda fosse una multinazionale quotata in Borsa, un investitore senza scrupoli, oggi, acquisterebbe le sue azioni? Il più importante produttore di terrore al mondo è in ribasso o le sue azioni sono destinate a crescere? Il fittizio investitore senza scrupoli molto probabilmente in questo momento non investirebbe in azioni al Qaeda. L’“azienda” sta conoscendo un momento di crisi, solo parzialmente giustificata dalla morte del suo carismatico leader storico, Osama bin Laden, ma evidenziata da altri segnali che fanno ritenere che il gruppo abbia perso slancio, o quantomeno che abbia superato l’apice della curva della popolarità. Alcuni segnali sono sintomatici: ormai da un paio d’anni si registrano attacchi suicidi condotti da ragazzini, malati di mente e addirittura donne, per l’integralismo esseri alla estrema periferia della società e della cultura islamica.
 
Il ricorso a queste categorie di “combattenti” ricorda l’impiego massiccio della milizia Volksturm (anziani, invalidi, donne e fanciulli) in Germania a pochi giorni dalla sconfitta totale: un tentativo disperato di supplire alla carenza di soldati di prima scelta. L’aver posto il medico egiziano al Zawahiri al vertice della organizzazione era l’unica cosa plausibile da fare, il numero due di bin Laden è l’erede naturale dello sceicco saudita, è un uomo molto intelligente, ma manca della popolarità e del carisma che il suo predecessore esercitava sulle masse in tutto l’islam. Essere stato il suo consigliere in ombra non gli ha giovato in termini di “marketing” e la sua figura è meno vendibile in Medio Oriente.
 
Molti, nell’islam anche più radicale, sembrano essersi resi conto che il terrore alla fine non paga e che i successi ottenuti finora sono più di stampo mediatico che sostanziale. I giovani siriani, maghrebini, yemeniti o degli Emirati (e forse in futuro anche giordani e sauditi) si sono accorti che la via dell’estremismo religioso non porta all’ottenimento di diritti fondamentali e universali indispensabili alla loro crescita intellettuale, sociale e umana, ma soprattutto non porta alla crescita economica, alla creazione di posti di lavoro, allo sviluppo della nazione e al benessere dei suoi abitanti. La mancata soddisfazione dei bisogni primari (libertà di espressione inclusa) è stata la condanna dei regimi nord africani e certo l’integralismo e il fanatismo religioso non trovano terreno fertile tra i giovani che in queste ore protestano nelle piazze alla ricerca di qualcosa che al Qaeda e altri fanatici religiosi non intendono certo offrire. Inoltre, una attenta disamina dei risultati ottenuti a suon di attentati impone una riflessione equilibrata e di conseguenza un giudizio negativo sulla validità dello strumento terrore nel conseguimento di obiettivi politici di largo respiro.
 
Allo stato attuale gli attentati sono serviti solo ad incattivire il nemico e a portare ancora più “crociati” a calpestare il suolo sacro dei Paesi arabi e musulmani. In questo scenario si inseriscono prepotentemente dinamiche ed equilibri interni all’islam, variabili che addirittura mettono a margine il popolare tema dei nemici esterni “crociati”, dando priorità alle storiche tensioni tra sunniti e sciiti, all’ossequio degli indirizzi dottrinali salafiti piuttosto che wahabiti, alle rivalità (soprattutto nel caso afgano) tra clan. Non è un caso che da anni ormai le uniche vittime del terrorismo e degli attentati kamikaze siano musulmani, perseguitati dall’inasprimento dello scontro interreligioso che si manifesta con attacchi ai luoghi di culto della fazione avversa. La ricerca di un nemico esterno all’islam resta una delle linee guida della dottrina del terrore, ma si direbbe che questo esercizio di politica elementare abbia a sua volta perso mordente.
 
A questo punto il futuro di al Qaeda è legato al qaedismo, ovvero a quella forma di lotta e a quelle azioni concepite e portate in atto da cellule autonome che si riconoscono nel pensiero di bin Laden e nella leadership di al Zawahiri, ma che dall’Afghanistan o dai vertici del movimento non hanno ricevuto alcun ordine, input o assistenza progettuale, militare o logistica. In sostanza fanatici di buona volontà che si ingegnano nell’organizzare attentati in occidente in maniera autonoma ed indipendente. Questo ovviamente genera una specie di “ora del dilettante” con esiti spesso grotteschi. La mancanza delle capacità organizzative della prima al Qaeda e il perfezionamento delle tecniche anti-terrorismo oggi rendono di fatto altamente improbabile il ripetersi di catastrofi come quella delle Twin Towers, a dispetto dei bellicosi proclami e minacce che puntualmente la macchina propagandista al Qaeda provvede a recapitare alle agenzie di stampa. Ma questo non vuol dire in assoluto che il terrorismo sia una minaccia verso la quale possiamo guardare con una certa serenità confidando che passi di moda a breve.
 
Il terrorismo è sempre esistito, in varie forme, sotto diverse giustificazioni etiche o politiche, a beneficio di opposte posizioni ideologiche, ad ogni latitudine. Spesso riuscendo anche a superare la fase di lotta armata per tramutarsi in legittima forma di governo. Se, come abbiamo visto, il terrorismo di matrice musulmana potrebbe in queste ore essere in ribasso, aspettiamoci altrove l’insorgere di gruppuscoli, anche molto ridotti, di fanatici, di esasperati o di “combattenti per la libertà” disposti a rischiare molto per il conseguimento di obiettivi politici o anche solo d’immagine. Forse al Qaeda ha iniziato la sua parabola discendente, ma, per parafrasare Brecht, “il ventre che ha generato il mostro è sempre fecondo” e le occasioni e i pretesti per esprimere in maniera violenta il proprio pensiero nel mondo globale sono aumentate, non diminuite.
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