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Gas, media e un po’ di Machiavelli. Basterà?

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La settimana del 25 gennaio 2011 fu punteggiata dai continui annunci da parte di Jazeera news di un evento minaccioso – il Venerdì di rabbia – e da immagini di dimostranti egiziani scossi ed indignati. Era davvero un fatto angosciante, perché fino a quel punto, nonostante una certa insoddisfazione politica in Egitto fosse emersa fin dal 2005, non vi era stato alcunché di paragonabile alle dimostrazioni di massa senza precedenti che presto avrebbero messo in ginocchio il regime di Hosni Mubarak e avviato una serie di proteste in vari Paesi del Medio Oriente arabo. Per inciso, direi che è stato proprio l’Egitto – e non la Tunisia, che avrebbe potuto restare un caso isolato – a scatenare l’effetto domino delle proteste antiregime nel mondo arabo, per la posizione unica che l’Egitto ha nella psicologia della cosiddetta “Arab street”. Considerando le relazioni piuttosto amichevoli tra il Qatar e la vecchia leadership dell’Egitto, questa è apparsa una mossa aggressiva e poco leale.
 
Il Qatar ha mantenuto lo stesso atteggiamento verso ogni Paese arabo dove è emersa una qualche forma di protesta, al punto di rompere i legami, fino a quel punto straordinariamente forti, con il regime siriano di Assad. In modo sorprendente, il Qatar ha proseguito la sua guerra mediatica, assistita da Al Jazeera, anche di fronte alla crisi in Bahrain, nonostante la vicinanza geografica, i legami dinastici e la comune partecipazione al Consiglio di cooperazione del Golfo. Il canale in lingua inglese della rete ha infatti trasmesso, durante i disordini in Bahrain, due documentari favorevoli agli sciiti. È materia di discussione per le generazioni future quanto la copertura mediatica delle proteste da parte di Al Jazeera sia stata efficace, ma non si può negare che, prendendo le parti del dissenso e ponendosi dalla parte della cosiddetta “gente”, essa si è distinta come la voce della democrazia, divenuta l’oggetto delle nuove aspirazioni. Perciò, per definizione, ha elevato l’immagine del Qatar, presentandolo come promotore della democrazia e nemico dell’autocrazia anti-populista.
 
“L’emiro del Qatar è oggi arrivato nell’ufficio ovale; è in sostanza il proprietario di Al Jazeera”, ha dichiarato Obama a Mark Knoller di Cbs news. “È un tipo molto influente. Uno che spinge e promuove la democrazia nel Medio Oriente. Riforme, riforme, riforme. È tutto su Al Jazeera”. Ma, pur lodandolo per la leadership “nella diffusione della democrazia in Medio Oriente”, il presidente ha aggiunto che lo stesso emiro “non sta facendo riforme significative” e ha detto che “non ci sono grandi progressi verso la democrazia in Qatar”. Uno sguardo ravvicinato al Paese svela quanto segue: la popolazione nativa è solo il 10% del totale; ha la più alta ricchezza pro-capite (109mila dollari secondo alcune stime); il monarca è un “progressista” di alto profilo; sua moglie, una poliglotta vestita alla moda e promotrice dell’istruzione; il ministro degli Esteri, un affascinante e mercuriale personaggio, recentemente nominato primo ministro, nonché architetto della sfuggente politica estera del Qatar e dei suoi rilevanti interventi sulla scena mondiale: a favore di Israele e dell’Iran, contro i regimi arabi.
 
Secondo alcuni, alla radice di questo singolare posizionamento vi è il desiderio di stabilire un’identità indipendente dall’ombra del grande fratello vicino, il Regno saudita, che domina il Consiglio del Golfo e detta in gran parte la politica estera dei sei Stati membri. Di certo, dopo il colpo di Stato del 27 giugno 1995 con cui Hamad ha deposto il padre e rilanciato il sonnolento sceiccato, sono stati spesi miliardi di dollari per portare la piccola penisola al centro dell’attenzione: non ultimo, ottenendo la sede dei giochi asiatici nel 2006 e i campionati mondiali di calcio nel 2022. Il Qatar ha anche investito molto nella valorizzazione del patrimonio immobiliare, sia quello nazionale sia quello posseduto in Europa. Doha, la sua capitale, è lo scintillante prodotto della collaborazione di alcuni dei più famosi architetti del mondo: Zaha Hadid, Ieoh Ming Pei, Norman Foster, per citarne solo alcuni.
 
Nell’ultimo decennio anche il gas ha spinto il Qatar al centro della scena mondiale, specialmente nel campo della politica araba, e ancor prima che divenisse rinomato come istigatore e promotore della Primavera araba. Quando il vecchio regime iracheno venne isolato dopo la liberazione del Kuwait (1991), il Qatar rimase l’unico Paese del Consiglio ad avere relazioni apertamente amichevoli con lo stesso, spingendo qualcuno a chiedersi se la famiglia di Saddam Hussein non avesse quote azionarie nella rete satellitare Al Jazeera. La rete ha poi svolto il ruolo di ripetitore dei minacciosi messaggi di Osama Bin Laden. Il Qatar ha agito da mediatore tra Hezbollah e i partiti politici libanesi. Ha usato i suoi controversi legami con Israele per cercare di svolgere un ruolo nelle relazioni israelo-palestinesi, ed è noto che garantì una via d’uscita all’allora leader dell’Olp Yasser Arafat nel corso dell’assedio da parte degli israeliani a Ramallah qualche anno fa.
 
La Primavera araba ha dato al Qatar una piattaforma globale, una spinta alla sua ambizione di diventare il Paese arabo cruciale per le dinamiche regionali. Il suo ruolo proattivo in Libia (sia con la fornitura di armi ai ribelli sia con l’appoggio militare alle potenze Nato) ha dimostrato che può davvero essere un alleato influente, capace di agire rapidamente. Resta da vedere se questo sarà abbastanza. Il Qatar rimane un piccolo Paese, e con tutte le sue ricchezze non può evitare la dura realtà di un crescente isolamento da parte dei vicini arabi, dovuto alla sua problematica politica estera e alla posizione pro-iraniana. Essere uno dei maggiori produttori di gas del mondo, con la seconda riserva del pianeta, potrebbe non bastare a compensare la mancanza di esperienza, forza demografica e popolarità.
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