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Nuovo spartito (e nuovi musicisti)

Nel dibattito pubblico sulla rinnovata domanda di unità, dopo la diaspora, dei cattolici in politica, meriterebbe forse maggiore attenzione un dato ben sottolineato da Roberto Cartocci, nella sua Geografia dell’Italia cattolica: «La minoranza dei cattolici attivi nelle parrocchie e nei movimenti è probabilmente l’unica minoranza attiva che sia sopravvissuta nel Paese, capace di coniugare insieme solidi riferimenti ideali, dedizione e capacità di organizzarsi in autonomia». Questa condizione di minoranza (di minoranza creativa) nella società non trova, però, un’esatta trasposizione nella rappresentazione politica dei cattolici, che appare sovrastimata. Si pone, quantomeno, un problema di coerenza.
 
Occorre dirsi, con molta onestà, che la risposta a questa domanda di offerta politica non può passare da un nuovo spartito musicale interpretato dagli stessi musicisti che, in quota parte, hanno sin qui eseguito brani incapaci di mostrare le motivazioni e ispirazioni “profonde” del loro operare. Giulio Andreotti, nella prefazione al saggio Dc. Il partito che fece l’Italia, ci consegna una lezione della storia della Dc, da tenere in conto: «Senza un punto di riferimento che vada oltre l’occasionale, il contingente, è quasi impossibile creare un nuovo movimento». Quell’esperienza politica, pur senza compiere alcuna laudatio temporis acti, merita una seria operazione, preliminare a qualsivoglia analisi del rapporto tra cattolici e politica, di ripensamento critico. Oggi, di fronte all’esaurimento, per consunzione, di un ciclo politico la storia della Dc, nella sua versione migliore, può essere d’insegnamento: ha avuto il coraggio e il merito di non chiudersi nella conservazione e nell’irrigidimento dell’equilibrio raggiunto. È il tempo di un “nuovo inizio”, che va accolto nello spirito moroteo di cambiare l’animo, prima ancora delle strutture e degli uomini.
 
Nell’assenza di “federatori” cattolici (come Sturzo, De Gasperi, Moro e mons. Montini), capaci di unire e far germinare un partito, le giovani generazioni possono, anzi devono, assumersi il rischio di essere gli attori di questo processo politico di ri-costruzione, disegnando nuove forme di relazione e partecipazione tra politica e società pur sempre attraverso i partiti che abbisognano di qualche correttivo. In questi anni si è assistito alla (ri-)proposizione di strutture partitiche o eccessivamente pesanti oppure troppo leggere, entrambe però accomunate dal disancoraggio con il passato, con i linguaggi e le memorie di riferimento, insomma con l’identità. Non si può sottovalutare questa dimensione organizzativa, confidando nelle doti salvifiche di chi sta al vertice, pena la ri-generazione di nuove sub aggregazioni mobili e transitorie, di cui la cronaca politica recente è ricca, la cui ragion d’essere è da ricercarsi solo nella difesa di rendite di posizione politica, per lo più di tipo personale. Cui prodest un nuovo partito politico cattolico che riproduca chiusure generazionali o arroccamenti di potere, contrari ad ogni apertura a chi è outsider? In questo senso, urge la riforma dell’attuale legge elettorale, altrimenti avrebbe ragione chi denuncia che i cattolici non possano seguitare “ad affaccendarsi nel pre-politico preparando ascari per altri eserciti fortemente attivi, ma a modo loro, nel politico”.
 
Come giovani Udc stiamo cercando di costruire un plurale andare oltre il presente, intercettando quelle esperienze associative e di volontariato giovanili di ispirazione cristiana (“giacimento di futuro”) che avvertono la medesima urgenza della condivisione di un’agenda di speranza (e di governo!) per il futuro del Paese che abbia ricchezza di valori e profondità di sguardo, “coniugando strettamente l’etica sociale con l’etica della vita”. Un movimento di movimenti − insieme interprete e agente, portatore di stile, animatore di dibattito pubblico e di nuova cultura politica − che non sia la semplice sommatoria dei responsabili delle diverse associazioni, ma che punti a raccogliere anche l’adesione di autorevoli personalità “mature” disposte a far fronte comune, rifiutando operazioni di rottamazione largamente di moda. E, qui, si permetta una riflessione che impegna solo chi scrive: occorre superare quell’atteggiamento “ambiguo” di taluni amici provenienti dall’associazionismo, per cui un giorno si è liberi opinionisti a bordo campo e il giorno seguente giocatori secondo schemi superati. Servono opzioni chiare che si misurino sui territori propri della politica, e non nel chiuso di salotti o laboratori, dal momento che “la politica è sempre dominio degli eventi” e gli eventi hanno sempre qualche cosa che “sporca le mani”.
 
Non si dovrebbe mai tradire il principio dell’unità dei distinti: unità profonda, nella progettazione, tra il lavoro delle aggregazioni laicali e l’impegno politico; distinzione nei metodi e piani di azione. Ancora: non è più accettabile quella malintesa concezione di moderazione connessa alla pretesa di costituire solo e sempre la gamba “moderata” di schieramenti variamente assortiti, perché per questa via «coloro che sono interessati all’accidia e ignavia di un gruppo, lo spingono al sonno». La dottrina sociale della Chiesa, che è l’orizzonte di riferimento ultimo, chiama, invece, il cristiano ad essere depositario di iniziative coraggiose e d’avanguardia. Sull’esempio delle minoranze creative, con il coraggio della devianza e una maggiore dose di indignazione civile, la “nuova generazione di laici cristiani impegnati”, nel giocarsi per la costruzione di una seria discontinuità, deve tornare ad incontrarsi “federandosi” e nel dialogo dar vita ad una piattaforma programmatica che tenga conto delle istanze di una generazione sempre più tradita nel suo futuro, perché poi, come ebbe a dire Alcide De Gasperi nel 1949 «La democrazia cristiana, prima che come partito, è nata come movimento sociale ispirato dal magistero della Chiesa. Dobbiamo affermare chiaramente che riconosciamo questa paternità e questa origine».
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