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Letture kosher di gennaio 2012

Un cammino in un deserto romano, verso una terra promessa, una promessa qualsiasi, una terra qualunque. Una sola famiglia inibita tra due mondi e tre generazioni, che assieme compongono una figura estranea a se stessa e al mondo, l’ebreo errante, appartenente a sé e a nessuno. Un cammino di chi non ha rinunciato all’idea di essere un uomo libero, privo di certezze e orientamenti, immobile di fronte ad infinite scelte, in costante movimento davanti a stati armati da divieti di accesso e porte blindate. Si tratta di un mondo libero, Il mondo libero, il nuovo romanzo di David Bezmozgis, in uscita in Italia a fine gennaio.
 
Elencato dal New Yorker tra i 20 migliori narratori americani under 40, Bezmozgis torna con un libro che sembra abbia tutti i requisiti per divenire un vero caso letterario, realizzando le profezie espresse in parte con la pubblicazione del suo precedente libro Natasha. Insieme a Bezmozgis, sotto lo stesso tetto esclusivo letterario, si trova Gary Shteyngart, un giovane scrittore russo americano di origini ebraiche, già classificato dal New York Times con il suo libro Storia d’amore vera e superstite (Guanda), al terzo posto tra i 10 migliori libri dell’anno 2010. Un caso oppure una nuova tendenza letteraria, dominata dai supereroi non eroi dell’est, in grado di conquistare lettori occidentali in tutto il mondo? Il tempo lo dirà, in ogni caso Il mondo libero, con la sua straordinaria maturità letteraria, riesce con ironia e precisione a far anche altro, trasformando la vera essenza del termine “straniero” in un concetto familiare ad ognuno di noi.
 
Ambientato a Roma nel 1978, che con “la sua soffocante calura estiva, lo sporco e il disordine” può “pretendere di far parte dell’Europa soltanto da un punto di vista geografico”, l’esodo di Bezmozgis, viene descritto in un modo asciutto e pragmatico. Tralasciando ogni traccia di pathos ed eccitazione di chi ha abbandonato la sua terra, la sua patria, la sua casa paterna, diretto verso la casualità ancor prima che “verso la terra che ti mostrerò” (Lech Lecha, Genesi). Di chi come Abramo, ha solo una strada davanti e non può più tornare indietro.
Gli immigrati di Bezmozgis, raccontati con sensibilità, talento e delicatezza non comuni, sono degli esseri umani infelici contenti, predisposti alla sopravvivenza, “dopo una vita passata a scansare la morte”. Persone, prima ancora che immigrati e soprattutto prima di essere ebrei, spinti alla ricerca di un mondo libero, creato per loro, uomini liberi e disillusi, in un cammino verso un futuro perseguitato dalle irrimediabili perdite quotidiane del passato. Tutte le strade potrebbero portare verso Israele, un’opzione aperta, ricambiata a volte per una sconfitta, altre per patologia, quando “farsi uccidere o mutilare in Libano, o in Egitto, o ovunque colassero le pallottole” sembrerebbe “svuotare di ogni significato la decisione di andarsene dall’Unione Sovietica”.
 
In questo cammino kafkiano-ceckoviano e comunque di pura natura ebraica, la fede e la felicità sono delle pecore smarrite, in un percorso immigratorio e per questo trasversale, dove un forte senso di estraneità, non fa altro che esaltare i valori del rispetto e della lealtà intrafamiliare tramandati in un esodo iniziato tempo fa, ancora in essere nei nostri giorni.
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