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Dadi e bulloni addio

Se guardiamo ai nomi che hanno fatto grande l’economia, l’elettronica e l’industria del Giappone nel XX secolo – Konosuke Matsushita, fondatore della Panasonic; Soichiro Honda, fondatore di Honda, Akio Morita, cofondatore di Sony – vediamo che erano tutti visionari, pieni di energia e immaginazione. Ma spesso, dopo la loro morte, le loro aziende sono diventate meno competitive, e i nuovi manager non hanno voluto rischiare e cambiare i modelli di business – proprio mentre coreani, cinesi, taiwanesi e indiani cominciavano ad accorciare le distanze tecnologiche dai giapponesi, sfruttando i vantaggi addizionali di una moneta e del costo del lavoro competitivi. Risultato: il Giappone ha perso la leadership in molti settori.
 
Io credo che l’information technology e la farmaceutica siano le chiavi per il successo futuro del Paese. Non saranno i comparti ad alta intensità di lavoro che ci potranno rilanciare. Agricoltura e pesca, con tutte le attenzioni che ricevono, sono pur sempre attività morenti. Per il Giappone, l’unica via in avanti è nei settori ad alta intensità di conoscenza; settori che, però, non sono al centro delle politiche governative. Si pensi alla recente decisione del governo di alzare le tasse sulle stock option, una mossa il cui risultato principale è stato stroncare l’uso delle stesse come forma di remunerazione del rischio in Giappone. Senza le stock option, è difficile compensare i manager per scelte coraggiose e di successo; tanto vale non prendersi rischi e stare comodi in poltrona.
 
Io penso però che le cose possano cambiare abbastanza rapidamente. Un esempio che potrebbe essere d’ispirazione è il caso di Apple negli Stati Uniti. All’inizio degli anni Novanta, l’azienda era in pessime condizioni finanziarie, ma Steve Jobs tornò al comando, ed essa si riprese completamente. Apple è ora uno dei gruppi che godono di maggiore considerazione al mondo, ed è un’ispirazione per tutti i giovani “smanettoni” che lavorano in un garage. È importante ricordare poi che Apple non è più un’azienda manifatturiera, ma progetta l’hardware e il software, crea i modelli di business e fa azioni di marketing molto intelligenti, ma la manifattura è data in outsourcing alla Foxconn di Taiwan, e la maggior parte dei suoi prodotti sono assemblati in Cina.
 
Questo è il modello che il Giappone dovrebbe cercare di imitare. E invece mi capita spesso di sentire esponenti della classe dirigente di questo Paese parlare di monozukuri, ovvero “capacità di fare prodotti”. L’immagine è quella di una grande azienda con una linea di montaggio e operai che lavorano con dadi e bulloni. È una cosa senza senso. Dadi e bulloni appartengono al passato del Giappone, non al suo futuro. Per seguire l’esempio di Apple, però, il Giappone ha bisogno delle competenze di Apple: information technology, progettazione e marketing, nonché di alcune caratteristiche sociali diffuse come la passione e la disponibilità a correre rischi. Il governo, naturalmente, non può creare queste condizioni, ma può comunque incoraggiarle con politiche intelligenti, come il ricorso alle stock option, un mercato borsistico aperto e competitivo e un vivace settore di venture capital; tutte cose che, attualmente, sono ad uno stadio relativamente immaturo di sviluppo.
 
Anche i media hanno un ruolo importante da svolgere. Si guardi al caso di Livedoor, un provider di servizi Internet di grande successo, capace di fare numerose acquisizioni in Giappone e negli Stati Uniti. Ma a un certo punto l’azienda è stata accusata di frode finanziaria ed espulsa dal listino di Tokyo nel 2006. La storia di Livedoor è stata sotto i riflettori mediatici per mesi, e la stampa si è mostrata molto ostile nei suoi confronti. Il fondatore di Livedoor, Takafumi Horie, è ancora alle prese con la giustizia, e denuncia di essere stato ingiustamente ostracizzato. Si è voluto fare di Livedoor un esempio, con il risultato di reprimere lo spirito competitivo nella generazione nipponica più giovane.
 
Durante il boom di Livedoor, molte altre imprese simili riuscirono a quotarsi in Borsa. I giovani dotati di talento si sentivano incoraggiati a lavorare per le aziende Internet. Poi i media si sono fatti prendere dall’isteria, e anche i politici non si sono sottratti a quest’onda emotiva. I giovani manager dell’information technology sono divenuti oggetto di vilipendio per il solo fatto di essere giovani e ricchi. Tutto ciò è completamente sbagliato. Chi lavora nei media non è un amante del rischio, ma certo ama andare all’attacco degli altri.
 
Quando grandi e solidissime imprese come Sony o Toyota si muovono, essi le difendono sistematicamente. Ma quando un giovane imprenditore cerca di fare qualcosa, subito cercano di contrastarlo. Negli Stati Uniti i giovani di successo e ricchi diventano eroi, il che ispira fiducia e speranza alla generazione successiva. Non è certo il caso qui da noi. Parlando di Softbank, il gruppo da me fondato, posso dire che ora siamo abbastanza tranquilli, ma abbiamo anche noi dovuto sopportare la nostra dose di denigrazione. Siamo tuttavia ora il terzo gruppo nipponico per utili realizzati. Ci sono altre aziende relativamente giovani e di successo: Uniqlo, Nitori, Nihon Densan. Ma abbiamo bisogno di più esempi di questo tipo per mostrare che il Giappone può creare oggi nuove aziende in grado di adattarsi con successo alla competizione.
 
Non è troppo tardi per tentare di riprendere in mano la fiaccola dei grandi leader e fondatori come Matsushita, Honda e Morita. Ma lo sarà, se aspetteremo altri dieci anni per sviluppare e implementare una chiara visione di lungo periodo per l’innovazione e la crescita imprenditoriale. È nota in Giappone la mia ammirazione per Ryoma Sakamoto, il samurai del XIX secolo che diede un grande contributo alla modernizzazione della politica e dell’economia nipponica. Nella gestione della mia banca, cerco di emularlo, perché voglio cambiare in meglio la società giapponese. Credo sia un obiettivo degno per tutti gli imprenditori di questo Paese, che lavorino per una grande impresa o per una start-up.
 
Traduzione di Marco Andrea Ciaccia
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