Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Il cappio dell’austerità

Una domanda che molti si sono chiesti in questi ultimi mesi è perché l’euro mantenga il valore contro il dollaro nonostante la grave crisi dei debiti pubblici che sta colpendo importanti Paesi dell’Europa del sud. Non dovremmo forse assistere a una repentina svalutazione dell’euro?
 
Nel 2001 il dollaro veniva scambiato contro la nuova moneta a 0,90. Da allora fino alla seconda metà del 2007, anno in cui è iniziata la crisi negli Stati Uniti, l’euro si è continuamente apprezzato nei confronti del dollaro toccando la quotazione massima di 1,58 (+75%). Dal 2007 ad oggi abbiamo avuto ampie oscillazioni con una quotazione media intorno a 1,30 che è pari alla quotazione degli ultimi giorni. Le cause della forte svalutazione del dollaro vanno ricercate in alcuni disequilibri strutturali che hanno caratterizzato nell’ultimo decennio l’economia statunitense: il deficit cronico della bilancia delle partite correnti che a sua volta era il riflesso di un tasso di risparmio privato in declino.
 
Questo ha comportato che il Paese dipendesse in misura sempre maggiore dal finanziamento estero. Gli investitori internazionali sono stati disposti ad accumulare asset denominati in dollari solo a condizione di avere un dollaro sempre più svalutato quando entravano nell’investimento. L’area dell’euro al contrario ha dimostrato di essere un’area autosufficiente con un deficit di partite correnti inferiore all’1% del Pil. L’apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro si è arrestato agli inizi della crisi internazionale, ben prima che si manifestasse la crisi dei debiti pubblici dei Paesi europei. Era perciò naturale attendersi una svalutazione dell’euro specialmente quando la crisi ha colpito un Paese come l’Italia.
 
Ma questo non è accaduto. Il motivo è che i Paesi del nord Europa che aderiscono all’euro hanno fatto sapere che non hanno nessuna intenzione di abbandonare questa valuta e come reazione hanno alzato alcuni paletti invalicabili: (1) che l’unione è un’unione monetaria e non unione fiscale, e (2) che la Banca centrale europea non deve venire meno al suo ruolo di garante del valore dell’euro.
Il punto (1) è stato messo in chiaro con l’avversione da parte della Germania e di altri Paesi ad emettere gli eurobonds. Questi ultimi per essere accettati dagli investitori devono godere di una garanzia solidale da parte dei Paesi membri. In altre parole, ci hanno fatto sapere che non puoi pretendere di chiedere al contribuente tedesco di pagare le tasse per gli sperperi dello Stato italiano. Questi sono i termini del gioco e questi erano i patti quando tutto è cominciato. Ciò non significa che non vedremo in futuro delle emissioni di eurobonds, ma saranno solo per programmi limitati con specifiche finalità.
 
Per il punto (2) basta ricordare le ripetute e continue dichiarazioni fatte dal governatore Mario Draghi che gli acquisti sul mercato secondario dei titoli di Stato dei Paesi in crisi non possono che essere contingenti a momenti di tensione e limitati nell’importo. Nonostante ciò i Paesi in crisi hanno continuato a chiedere interventi illimitati da parte della Bce ricorrendo ad una dottrina, mal digerita, del ruolo della banca centrale come prestatore di ultima istanza. Chi ha letto un testo di economia monetaria dovrebbe sapere che il ruolo di prestatore di ultima istanza si riferisce al finanziamento fatto dalla banca centrale ad istituzioni finanziarie in crisi di liquidità per evitare fallimenti bancari che potrebbero destabilizzare il sistema finanziario; acquistare titoli di Stato sul mercato secondario senza limitazioni si chiama monetizzazione del debito pubblico ed è la via maestra per forti svalutazioni della moneta come molte esperienze dell’America latina ci hanno insegnato. Mario Draghi che ha avuto il mandato di salvaguardare il valore dell’euro questo non può farlo.
 
Sono stati questi segnali, no agli eurobonds e no all’acquisto illimitato di titoli da parte della Bce che hanno fatto sì che l’euro non si svalutasse di fronte alla crisi del debito pubblico di alcuni Paesi dell’Unione.
Agli inizi di marzo tutti i Paesi dell’Unione ad eccezione dell’Inghilterra e della Repubblica Ceca hanno sottoscritto un patto nel quale con legge costituzionale si impegnavano al pareggio di bilancio. Alcuni osservatori hanno interpretato il nuovo patto fiscale come un primo passo verso una vera Unione fiscale, ma in realtà il nuovo patto non è altro che un rafforzamento dei principi stabiliti nel trattato di Maastricht. Ma se il trattato di Maastricht non ha funzionato come meccanismo di convergenza per i Paesi aderenti come sarà possibile che una riedizione in versione ancora più restrittiva avrà successo?
 
La lezione che abbiamo imparato è che l’unione monetaria ha funzionato dal punto di vista della stabilità dell’euro (1) perché le finanze pubbliche dei singoli Paesi funzionavano a compartimenti stagni senza impegno solidale e (2) perché la politica monetaria è stata condotta sul modello della Bundesbank. Abbiamo però anche imparato che l’Europa non è una buona area valutaria in quanto al suo interno si creano squilibri tra nord e sud in termini di produttività e di bilancia commerciale senza che si inneschino meccanismi automatici di aggiustamento. Se non ci si interroga come porre rimedio a questi problemi, difficilmente la pura richiesta di austerità fiscale potrà essere un rimedio.
 
Bisogna riconoscere che almeno nel breve periodo il ricorso alla mera austerità qualche risultato lo ha portato come in Italia con le politiche del governo Monti e in parte in Spagna con quelle del governo Rajoy dove abbiamo registrato una riduzione degli spread. Tuttavia, ci sono seri dubbi che le politiche di austerità intraprese da diversi Paesi europei possono portarci fuori dalla recessione e anche raggiungere gli obiettivi di pareggio di bilancio annunciati se l’economia europea non cresce. Il governo italiano dovrebbe fare subito gli investimenti pubblici programmati per far crescere il Pil. Allo stesso tempo la Germania insieme agli altri Paesi del nord Europa, che in questi anni hanno avuto la bilancia commerciale in surplus, dovrebbero attivarsi per mettere in piedi politiche fiscali espansive. Al contrario, con il nuovo patto fiscale ci siamo invece preoccupati di mettere fuori legge le politiche del vecchio Keynes.
 
L’articolo riflette il punto di vista dell’autore senza impegnare l’organizzazione a cui appartiene
×

Iscriviti alla newsletter