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La storia e il futuro sono l’Europa

Senza eserciti né identità, l’ombra anonima dei mercati e della finanza pare in grado di annientare in un attimo millenni di fatiche, di speranze ma anche di forti resistenze nei confronti del modello unitario e omogeneo. Allora è importante restare uniti, sentirsi uniti per combattere il nemico moderno
L’idea di Europa nasce come un mito e si consolida rapidamente all’affacciarsi del primo nemico esterno, potente e minaccioso da sud-est. Furono i greci, per un curioso incidente della storia, a Maratona (490 a.C.) e a Salamina (480 a.C.) i primi eroici paladini di quella comune identità di lingue, etnie e culture che definiamo Europa. Dopo i persiani sono arrivati gli arabi, e dopo gli arabi i turchi, a cementare dall’esterno il mito interno che ha alimentato fino ad oggi la nostra idea di Europa. Bruxelles continua a promuovere nel resto del mondo questo progetto politico, economico e culturale con il linguaggio della modernità: united in diversity.
 
Oggi più che mai sembra cruciale insistere sulla prima parte dello slogan: restare uniti, sentirsi uniti per combattere il nemico moderno, l’ombra anonima dei mercati e della finanza, che senza eserciti e senza identità pare tuttavia in grado di annientare in un attimo millenni di fatiche, di speranze ma, confessiamolo in tempi difficili, anche di forti resistenze nei confronti del modello unitario e omogeneo.
Sul piano politico ed economico i costi dell’integrazione ci sono apparsi chiari, soprattutto in questi ultimi mesi di guerra, perché di guerra si tratta. Nei Paesi mediterranei, l’intervento esplicito o mediato dell’Ue ha orientato se non addirittura generato i governi nazionali e, di conseguenza, ne sta determinando le scelte fondamentali nei settori fondamentali (fisco, sanità, lavoro). Non entro nel merito.
 
Appare tuttavia evidente, per l’Italia almeno, una rassegnazione diffusa e sempre più sofferta fra chi, i cittadini elettori, si sente più strumento che attore del processo di integrazione. Ciò rafforza certi sentimenti di “antipatia etnica” verso popoli e culture a noi storicamente legati (i tedeschi, il tedesco e la Germania, per esempio), che sembravano superati dal corso della storia. Ciò non rafforza affatto i sentimenti di “simpatia politica” verso l’Europa delle istituzioni, delle politiche di rigore e delle imposizioni centralistiche.
 
Saranno allora le spinte centrifughe a prevalere nella coscienza dei cittadini europei, a Madrid come ad Atene, a Roma come a Berlino o tornerà a dominare la consapevolezza dei valori e dei principi che ci fanno e ci hanno fatto sentire europei di fronte al resto del mondo? Le risposte al quesito sono state cercate sinora nelle pagine dell’economia politica e della finanza dei più importanti quotidiani internazionali e i principali think tank lavorano su questa traccia.
Proviamo a trasferire il problema sul piano culturale e identitario, dove i costi dell’integrazione e della perdita di sovranità nazionale non sono stati ancora calcolati, né tanto meno gli eventuali profitti.
 
Sul tema ha scritto pagine visionarie Remo Bodei (Libro della memoria e della speranza, 1995 Bologna, il Mulino) in anni che ci paiono remoti. Cito l’essenziale: “Nessuna parte del mondo ha posseduto questa singolare proprietà fisica: il più intenso potere emissivo unito al più intenso potere assorbente. Tutto è venuto all’Europa e tutto ne è venuto”.
L’apertura e la capacità di assorbire i grandi movimenti della storia (Atene, Roma e Gerusalemme nell’antichità) senza confonderne i tratti distintivi hanno messo in sicurezza i nostri ricchi patrimoni nazionali intangibili fino all’epoca moderna, in termini di lingue, di culture e di modelli sociali. I pilastri della civiltà europea si sono indirizzati e pacificamente diffusi verso l’esterno in una percezione omogenea e unitaria che regge nel presente: prima fra tutti un’idea di progresso fondata sui principi filosofici della libertà e della ragione.
 
Che cosa significherebbe recuperare oggi, sul ciglio del baratro economico, un rinnovato senso storico dell’universalismo europeo?
Un primo profitto: la rimessa in gioco del concetto stesso di sovranità nazionale, seguendo il corso di una storia dei popoli che, in Europa come altrove, continua a mostrare molteplici casi di lingue, comunità e gruppi etnici di appartenenza che tagliano le frontiere o le percorrono silenziosamente nel ruolo scomodo di minoranze. Indubbiamente, ripensare l’identità collettiva dei moderni Stati-nazione in senso universalistico produrrebbe un altro risultato importante: la sconfitta definitiva dei particolarismi e dei localismi più accesi e il rilancio di una politica estera culturale doverosamente ambiziosa e globale.
 
Un secondo profitto: la straordinaria opportunità di ricomporre in un nuovo equilibrio i bisogni della cooperazione (fra Stati europei in una logica integrativa e aperta alla comunità internazionale) e le istanze inderogabili della competizione (degli Stati europei integrati e solidali verso il resto del mondo). In questo quadro, gli imbarazzanti silenzi all’apertura del fronte libico e gli altrettanto imbarazzanti interventi, tardivi e contraddittori, all’apertura del fronte greco da parte di Bruxelles resterebbero frammenti di memoria opaca.
 
Eppure si continua a discutere dei limiti e dei confini dell’area, con una tacita logica difensiva e, per certi versi, nazionalistica. La Croazia diventerà Stato membro dal luglio del 2013 e la Serbia ha ottenuto lo status di Paese candidato nel marzo di quest’anno. Cipro è Stato membro dal 2004 e detiene la presidenza di turno nel corso del secondo semestre 2012, mentre la Turchia continua il processo di avvicinamento, sia pure con apparente distacco emotivo.
 
La mappa antica dell’Europa di Eschilo e di Erodoto sembra naturalmente ricomporsi nell’idea moderna e vincente di un’Europa aperta, integrata e universale, più cooperativa al suo interno per ritornare ad essere competitiva all’esterno.
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