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Ricercando la sovranità perduta

Ci troviamo davanti ad una crisi di sovranità. Come in tutte le transizioni storiche importanti, tutto si sta rinegoziando, compresi i termini della sovranità.
La crisi finanziaria chiude una stagione storica ben precisa: quella le cui premesse sono state gettate negli anni ‘80 con l’avvento del neoliberismo nei Paesi anglosassoni – da intendersi come risposta alla crisi di questi stessi Paesi intervenuta negli anni ‘70. Una stagione che si è poi dispiegata, con forza straordinaria, a partire dal 1989, nel momento del repentino crollo dell’impero sovietico, il grande antagonista delle democrazie di mercato lungo tutto il XX secolo.
 
Da quel momento, si apre una fase storica straordinaria – e che potremmo chiamare “prima globalizzazione” – che si è caratterizzata per un duplice aspetto: un unico centro politico (gli Stati Uniti e i loro alleati) e un’espansione continua e illimitata (resa possibile dalla costruzione di un sistema tecnico planetario e soprattutto dalla finanziarizzazione). La sensazione (giusta) di una perdita di sovranità si è avuta soprattutto in quelle aree – a partire dall’Europa – dove non si è capito quello che stava accadendo: l’ingresso nella prima stagione post-coloniale (non neo-coloniale, come sostengono i no-global), nella quale veniva ridefinito il rapporto tra interno e esterno, tra territorio nazionale e spazio planetario nella creazione della ricchezza e, di conseguenza, del consenso. Dietro questa straordinaria stagione espansiva c’era una nuova idea di politica che, se da un lato destrutturava le vecchie sovranità, dall’altro ne ridefiniva di nuove, all’interno di una matrice spazio-temporale inedita.
 
La crisi finanziaria mette fine a questa stagione espansiva e monocentrica fondamentalmente perché dissesta il fondamento tecnico-politico su cui essa si è retta. Nel momento in cui la Lehman and brothers non viene salvata e fallisce – contraddicendo alla convinzione implicita delle grandi istituzioni finanziarie figlie di quella stagione di essere too big to fail – è l’intero castello di carte (finanziarie) che crolla, facendo entrare il sistema in una pericolosissima crisi di fiducia. Ma la crisi di fiducia altro non è che la crisi di un determinato ordine istituzionale.
In questo senso, dietro la crisi economica se ne cela una politica, e quindi della sovranità.
 
Per tamponare il collasso, il governo americano decide, con la nuova amministrazione Obama, di iniettare 700 miliardi di dollari all’interno del sistema economico. Una tale decisione è possibile solo perché gli Stati Uniti sono un Paese sovrano che, in virtù della sua forza economica e militare, è in grado ancora di garantire la propria moneta. E questo nonostante tutti sappiano che l’indebitamento complessivo degli Usa è persino superiore a quello degli altri Paesi avanzati. Con questa mossa, dopo un momento di defaillance, il governo americano ristabilisce certezza agli operatori: dietro le transazioni finanziarie – scambi fittizi basati su alchimie tecniche – c’è tutta l’autorevolezza degli Stati Uniti. La convinzione era che, in questo modo, l’intero sistema poteva ripartire. Ma la scoperta di questi anni è che il salvataggio Usa ristabilisce fiducia solo per l’economia americana. E questo ripropone il tema della sovranità.
 
Che il problema sia di ordine politico lo si vede bene considerando quello che sta accadendo, ormai da più di un anno, in Europa, dove la situazione non si riesce a sanare. A differenza di quanto accaduto in America, nel vecchio continente i continui (e rilevanti) interventi monetari non riescono a sanare la situazione. La ragione è eminentemente di tipo politico-istituzionale: i salvataggi non funzionano perché l’Europa non costituisce una unità politica. E questo perché la crisi è una crisi di fiducia nel senso che ciò che la risolve è la ricostituzione di un ordine (politico) in grado di garantire il fondamento stesso delle masse debitorie circolanti (e non sanabili nel breve periodo). La mancanza di questa fiducia che l’assenza di una salda autorità politica comporta rende l’Europa un bersaglio ideale per chi vuole scommettere – cioè per le enormi masse speculative che vagano per il sistema planetario mondiale – e per chi vuole trarre profitto politico attraverso un’azione mirante ad indebolire una delle aree economicamente più importanti del mondo intero.
 
Nella grande stagione espansiva che è alle nostre spalle, la crisi della sovranità è consistita nella dislocazione di potere dalla periferia al centro. Con la crisi siamo entrati in una nuova fase storica – che possiamo chiamare “seconda globalizzazione” – nella quale la sovranità sta cercando di riallocarsi. In questa nuova fase, esisteranno quei territori e quelle comunità che sapranno riscrivere una alleanza tra i diversi soggetti sociali in vista di una rinnovata capacità di produrre valore. Un valore che sarà il fondamento della loro stessa “consistenza” – che è il nuovo nome della sovranità – da cui dipendono competitività e attrattività.
 
In questo senso, la crisi finanziaria sta rimettendo in gioco a tutto tondo la sovranità – e con essa la politica – come peraltro è evidente se si guarda con occhi attenti quanto sta accadendo in giro per il mondo. La crescita economica di nuova generazione che ci aspetta nei prossimi anni avverrà in un mondo multipolare dove, proprio per questo, tutto sarà più negoziato, dove occorrerà tornare a fare economia (nel senso che si dovrà fare di più con meno) perché l’espansione finanziaria e geografica non potrà più essere presupposta, dove l’innovazione, non solo tecnica ma anche istituzionale e sociale, e la coesione diventeranno risorse strategiche.
 
Certamente, per un Paese come l’Italia la sovranità si è ridotta negli ultimi decenni. Ma questo arretramento deve essere inquadrato nel movimento più generale che storicamente accompagna gli anni che stiamo vivendo: finita l’epoca degli Stati-nazione nati nell’Ottocento, siamo ormai nel vivo di una nuova stagione in cui l’obiettivo è la costituzione di architetture istituzionali nuove che, senza distruggere ciò che le precede, sappiano sapientemente integrare spazi e interessi più grandi.
Il grande ideale dell’Europa si rivela, oggi più che mai, attuale.
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