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L’Atlantico stretto di Napolitano

Il viaggio a Washington del presidente della Repubblica ha una valenza doppiamente significativa. Anzitutto è il riconoscimento dell’Amministrazione Usa e dello stesso Barack Obama del ruolo avuto da Giorgio Napolitano in questi sette anni trascorsi al Quirinale. Il Capo dello Stato è stato un punto di riferimento importantissimo non solo nella vita pubblica italiana, anche nelle relazioni internazionali e in quelle bilaterali con gli Stati Uniti.

È stato detto e scritto molto a proposito del fatto che l’allora dirigente del Pci fu il primo esponente di Botteghe Oscure ad essere stato accolto oltre oceano. Un po’ meno evidenza è stata data invece alla lectio magistralis pronunciata da Napolitano dieci giorni fa in una conferenza organizzata dall’Ispi. In questa occasione, il presidente ha saputo spiegare la politica estera italiana avendo come punto di riferimento l’ancoraggio all’alleanza atlantica il cui primato non è stato intaccato neppure quando andava in voga l’idea della “fine della storia”.

Gli equilibri geopolitici seguiti al crollo dell’impero sovietico sono stati, e per certi versi sono ancora, instabili. Eppure la relazione fra Stati Uniti e Italia continua ad essere speciale e Napolitano ne è stato testimonial nel rapporto personale con Obama ma anche al di là del legame con la Casa Bianca. L’opinione, o meglio la vulgata, secondo la quale il passaggio strettissimo che il Capo dello Stato ha dovuto affrontare con la crisi del governo Berlusconi sia stato in qualche modo eterodiretto da una manina americana è una bufala. Se c’è stato un momento in cui il Quirinale è stato più protagonista, quello è stato quando si è discusso dell’intervento in Libia. Dentro i limiti della Costituzione e con un contatto diretto con il governo assicurato con il ministro degli Esteri (all’epoca Franco Frattini), in quella occasione il centralino del Quirinale è stato di certo più bollente. E veniamo al punto. L’incontro fra Obama e Napolitano di ieri non è solo l’omaggio ad un presidente italiano che conclude il settennato: è la celebrazione di un rapporto diplomatico intenso e con una forte valenza strategica.

Al di là delle rassicurazioni date sulla tenuta istituzionale dell’Italia in un momento particolarmente critico (elezioni, scenari di instabilità, scandali politici ed economici) – un po’ di orgoglio nazionale, dopo tanto tafazzismo dei candidati premier, ci voleva – l’appuntamento di Washington è utile per rinforzare un legame che può e deve vederci attori primari in Europa non solo nella definizione di politiche economiche di crescita che possono far aumentare gli scambi commerciali fra i due continenti ma anche nel processo di pace nell’area del Mediterraneo e dell’Africa. Afghanistan, Libia, Saleh, Siria: i fronti in cui l’Italia è o può essere impegnata sono molteplici. La Nato e l’Unione Europea sono le cornici dentro le quali il nostro Paese ha l’opportunità di far valere il suo peso politico e la sua fortuna geografica. Certo, le polemiche sugli F-35 e in generale sulle spese militari, sul Muos, sulla condanna degli agenti Cia per l’operazione Abu Omar non sono il migliore viatico per chi dovrà raccogliere il testimone del prossimo governo.

Dall’altra parte dell’oceano però c’è un riconoscimento positivo per l’Italia e soprattutto ci sono due formidabili interlocutori. Uno è Obama e l’altro, forse ancora più rilevante sul piano diplomatico, è John Kerry. Il nuovo Segretario di Stato Usa conosce bene il nostro Paese e lo stesso ambasciatore David Thorne è stato molto impegnato, e con più di un successo, a raccontare le posizioni americane in Italia e, allo stesso modo, a descrivere i fatti del nostro Paese a Foggy Bottom.

C’è insomma una grande opportunità che non può essere sprecata. Giorgio Napolitano lascia in eredità un Atlantico più stretto. Questo può voler dire tanto, sia dal punto di vista degli investimenti finanziari e industriali, sia dal punto di vista strategico. La nostra posizione in Europa e nel Mediterraneo può essere tanto più forte quanto, nella sua indipendenza, connessa al valore dell’alleanza con gli Stati Uniti. La politica estera e di difesa è stata assente in questa campagna elettorale ma non lo è stata al Quirinale. Non dovrà esserlo dopo Napolitano.

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