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Ratzinger e la difficile conciliazione tra martirio e stanchezza

Si sta concludendo ormai quella che con un pizzico d’ironia possiamo chiamare la “settimana eterna”. Certamente, per la Chiesa sono stati giorni di un’intensità incredibile, che è probabile, saranno seguiti da altri dello stesso genere.

Soprattutto, molte sono le questioni aperte, sia di ordine spirituale e sia di ordine politico. Molti sono i timori che aleggiano, ma molte sono anche le speranze. Nella vita della Chiesa è sicuro che, specialmente durante il mercoledì delle ceneri di quest’anno, si sia diffusa una tangibile tristezza, bene espressa dalle parole di omaggio al Papa del cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone che invitano a considerare l’atto di Ratzinger quasi un supplizio.

Di là delle singole valutazioni, si percepisce un clima di umiltà nei sacri palazzi, un atteggiamento dimesso che dovrebbe essere normale ma che, troppe volte, purtroppo, in questi anni, è stato nascosto sotto una terrificante arroganza. Il riferimento non va, ovviamente, ai punti di riferimento visibili, ai vertici, ai cardinali, ma a un portamento diffuso in tutti coloro che contano qui a Roma.

Adesso tutti sono umili. Adesso tutti siamo diventati agnellini. E più che scoramento probabilmente dovrebbe essere sentito un senso di responsabilità pesantissimo nelle nostre coscienze.

Lo dirò schiettamente: davanti alla rinuncia di Benedetto XVI bisogna sentire un lacerante senso di colpa. Se, infatti, il Papa non ha avuto la forza spirituale di affrontare le difficoltà, è perché non gli siamo stati vicini abbastanza spiritualmente, non lo abbiamo veramente aiutato, non abbiamo collaborato al suo magistero e alla sua missione con nostri comportamenti coerenti. Lo dico da credente, ovviamente. Ma può valere per tutti. Perché questo è esattamente il primo effetto positivo, moralizzatore, della scelta insindacabile e sovrana di un uomo straordinario. Probabilmente un pontificato di questa levatura morale e intellettuale è stato troppo per noi, per questa epoca storica così depravata culturalmente e così superficiale, e non ce lo siamo meritati.

Una seconda osservazione, implicita nella prima, concerne che cosa non va profondamente nel nostro mondo. Ci dice cioè molto del nostro tempo e delle nostre mancanze. Mi ricordo che in un discorso di qualche anno fa, Benedetto XVI rifletteva sul fatto che spesso l’uomo non è all’altezza di se stesso, non è pienamente uomo, è cioè meno di quanto dovrebbe essere in realtà. Forse dovremmo sentirci un po’ così anche noi in questo frangente. La forza spirituale di un Papa è la preghiera e la santità dei fedeli di cui è servo. Finendo correttamente il sillogismo da quella premessa si giunge diretti alla conclusione precedente, ossia alla nostra diretta imputazione di responsabilità.

Due domande restano, ad ogni buon conto, assillanti: Davanti a questa circostanza, il Papa non avrebbe dovuto accettare la Croce fino alla fine? Non ha tradito così l’infallibilità, di cui è espressione, ammettendo il fallimento del suo ruolo?

Alla prima questione si può rispondere pensando un momento con realismo alla scelta che ha fatto. Rinunciare alla cattedra di Pietro non è una Croce, se uno pensa che se ne andrà in vacanza o si cimenterà in un nuovo incarico. E’, invece, un martirio enorme, se è una rinuncia alla possibilità di una missione per cui si è speso una vita. Oltretutto, in un momento peculiare come il nostro, in cui l’attaccamento al potere è l’unica ideologia imperante, quasi come l’idolo cui non s’intende in nessun caso rinunciare, Ratzinger ha valorizzato la logica del distacco, andando contro pelo, gettando addosso alle ambizioni sfrenate e alla volontà di potenza collettiva un anatema tra i più pesanti che si ricordino.

Pensate un po’, il Papa deve dare l’esempio? Bene. A una società globale d’ingordi, Benedetto XVI ha mostrato la grandezza del digiuno, all’arroganza la mitezza, al protagonismo di essere potente, l’umiltà della fede personale nascosta e defilata.

Non c’è che dire. Sono le Beatitudini. Chiediamoci, invece, se noi siamo ancora capaci di capire quello che ci succede attorno, oppure siamo totalmente obnubilati dai nostri interessi e dalle nostre idiozie.

D’altra parte, l’infallibilità riguarda il Papa, ossia quel sacerdote che è pontefice fin quando è pontefice. Dunque la sua rinuncia è infallibile, vale a dire è giusta per il bene della Chiesa e per il bene nostro. Il fatto di non comprendere non dico i motivi ma perfino le conseguenze positive del gesto è irrilevante, ed è qualcosa di anomalo solo per chi all’infallibilità non crede comunque, neanche nelle materie fondamentali della fede.

Dunque, non è un problema per i non credenti. E tanto meno può esserlo per i credenti.

 

Benedetto Ippolito

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