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Bersani non è Pella, Napolitano non è Einaudi

Rovistando nei polverosi archivi della Prima Repubblica per individuare eventuali analogie col tentativo dell’esploratore Bersani di costituire un governo, anche autorevoli commentatori hanno ritenuto di richiamare il precedente del governo Pella, nominato dal capo dello Stato a Ferragosto del 1953 dopo oltre due mesi dal voto del 7 giugno. Ma quel confronto non regge. Intanto non c’era allora il cosiddetto “ingorgo istituzionale” essendo stato Einaudi eletto soltanto cinque anni prima e mancando due anni (e non due mesi!) alla scadenza del settennato. Soprattutto, prima di Pella vi furono un VIII governo De Gasperi, regolarmente costituito, che non incontrò la fiducia di Montecitorio, e un governo Piccioni, che venne meno al momento in cui un improvvido scandalo alzato dal paracomunista Paese Sera mise fuori gioco il segretario democristiano del 18 aprile. Ma erano le condizioni politiche a risultare assolutamente diverse dalle presenti.

Si era votato con la proporzionale, anche se era previsto un premio di maggioranza alla coalizione dei partiti che avesse superato la metà più uno dei voti validi. Quel premio non scattò: non perché gli elettori avessero respinto l’alleanza centrista, ma per effetto di clamorosi brogli organizzati dai comunisti e dai missini in concomitanza con la presentazione di due liste di dissidenti democratici laici (Parri e Corbino) e col relativo successo di Magnani e Cucchi, che avevano sottratto voti al Pci osservando una linea filotitina, neutralista e antisovietica, mentre il Pci aveva rotto con Belgrado ed era obbediente verso Mosca. Il premio di maggioranza non scattò per 59 mila voti, un’inezia. Il ministro dell’interno Scelba presentò a De Gasperi (che aveva guidato tutti i governi italiani dal dicembre 1945) la documentazione che, in realtà, un semplice riconteggio, anche soltanto parziale, avrebbe potuto consentire di assegnare a democristiani, socialdemocratici, liberali e repubblicani il numero di seggi previsto dalla nuova legge elettorale. Ma De Gasperi replicò: “In democrazia contano anche le apparenze. Anche se sono convinto delle tue ragioni, nell’elettorato c’è l’impressione che abbiamo perso; dobbiamo accettare questa volontà anche se la realtà c’è favorevole”.

Il punto da non trascurare è che, malgrado il mancato scatto del premio, l’alleanza centrista aveva la maggioranza assoluta dei seggi tanto alla camera che al senato, mentre furono i partiti laici, delusi dai risultati conseguiti, a negare i loro voti al monocolore democristiano: che non era autosufficiente e tentò (ma non nutrendo fiducia di riuscire) di ottenere un qualche consenso parlamentare sulle cosiddette “mezze ali”, la socialista a sinistra, la monarchica a destra. Ad ogni modo, un governo di minoranza (ma rasentante il 50 per cento dei voti popolari), fu costituito, fu bocciato alla camera e lasciò il passo ad un altro tentativo: quello di Piccioni.
Piccioni non ricercò una formula simile a quella del monocolore fallito. Si accinse a dare vita ad un tripartito Dc-Psdi-Pri che godesse almeno dell’astensione del partito socialista di Nenni; il quale aveva condotto l’intera campagna elettorale all’insegna dell’autonomia socialista. Sulla formula tripartita e su alcuni punti programmatici (sostanzialmente tre) ottenne il consenso dei due partiti laici e il beneplacito del socialismo nenniano. Non solo. Quel tentativo piccioniano venne riguardato come un punto di partenza per avviare un processo di riunificazione socialista, al quale non erano contrari neppure Magnani e Cucchi, per non parlare di Parri, tutti sostenitori della costituzione di una “terza forza”.

La rinuncia di Piccioni, non dovuta a motivi politici, bensì allo scandalo di Capocotta che coinvolse (ingiustamente, si sarebbe più tardi appurato) un suo figliolo, non lasciò cadere l’ipotesi tripartita, ma la rese al momento impraticabile. Il presidente Einaudi, dopo due giri di consultazioni, non accertò l’esistenza di una qualsivoglia alternativa democratica. Avvertì tuttavia l’obbligo di nominare, al terzo tentativo, un governo del presidente: appunto il monocolore Pella, scegliendo un proprio conterraneo piemontese, sostenuto dai liberali di Malagodi, non avendo la certezza che potesse accogliere consensi parlamentari se non sulla destra. Come infatti avvenne. E la Dc (che tornò a eleggere segretario De Gasperi a settembre) non poté che prenderne atto. Andatosi Pella ad infilare in una plateale polemica con la Jugoslavia nel tripudio delle più reazionarie forze nazionalistiche italiane a rischio di scatenare un terzo conflitto mondiale, toccò a Scelba, nel dicembre 1953, dichiarare “amico” il governo Pella, decretandone la fine, formalmente insorta nei primi giorni del 1954.

Paragonare il Napolitano di oggi con l’Einaudi del 1953 è semplicemente arbitrario. Le forze in campo sono totalmente diverse. Sarebbe come considerare Bersani un alieno di destra; e non tenere conto che siamo in chiusura del settennato di un Napolitano che ha molto da insegnare su cos’è un vero bipolarismo, affatto diverso dalla prepotenza di chi non ha superato il 30 per cento dei consensi popolari.

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