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Il Pd di Bersani e la sua fine modello Dc

Sul Messaggero di oggi (16 aprile), il professor Giovanni Sabbatucci segnala un possibile “Big Bang democrat” come un alto “rischio da Vecchia Dc”, che può apparire un giudizio spericolato e, invece, è davvero calzante. Tanto più che nell’inquieto e disomogeneo gruppo dirigente del Pd ci sono esponenti risultati decisivi, e in negativo, nella implosione negli ultimi giorni della Dc.

Ma il punto che più palesemente unisce le due analogie distanti tra loro un ventennio, è quota 29: cioè la percentuale elettorale attuale della sinistra imperniata sul Pd (- 24,0 per cento rispetto al 37,5 del 2008), la stessa ottenuta dalla Dc nel voto dell’aprile 1992. Né oggi, né ieri un partito può aspirare a coprire tutti i vertici delle istituzioni nazionali, se non ha nel paese un radicamento ed un consenso di riguardo che ne legittimi le rivendicazioni.

Il segretario del Pd da cinquanta giorni insiste su uno strano ragionamento: parla di un “doppio binario”, uno per la scelta del successore di Giorgio Napolitano, l’altro per la costituzione di una maggioranza parlamentare, non capendo che il doppiobinarismo, nella storia della Repubblica, equivaleva a doppiogiochismo: quel comportamento (solidale al governo, protestatario e distruttivo nelle piazze) che fu causa decisiva per la fine del Tripartito e l’estro¬missione, ultragiustificata, di Pci e Psi dall’esecutivo. Dopo cinquanta giorni di vuoto governativo, già costato un altro punto di Pil ad un paese giunto allo stremo della propria resistenza fisica, Bersani, malconsigliato da una sinistra pigliatutto che però palesemente prevale all’interno del Pd, ritiene praticabile due diverse alleanze: una per il Quirinale, l’altra per un ministero affidato alle mani di un manipolo di grillini, che possono non avere interesse a tornare subito a casa dopo una fortunosa elezione a Montecitorio e a Palazzo Madama, dove, non essendoci l’ombrello di uno stratosferico premio di maggioranza, non v’è certezza di futuro politico per nessuno, nemmeno per i più avventurosi.

Apparentemente la separazione fra la scelta del capo dello Stato e quella di un presidente del consiglio minoritario in partenza, può essere corretta. Ma così non è. Per il semplice motivo che, come insegnano le precedenti undici esperienze presidenziali, il processo formativo di un capo dello Stato influenza il successivo settennato: o, quanto meno, la sua prima parte. E, nel nostro caso, la prima parte del nuovo settennato è esposta all’infuriare dei venti contrari piuttosto che ad un ponentino che induce a sonnecchiare, se non all’accidia.

Sabbatucci non nutre fiducia in un “primo cerchio” che si risolva subitaneamente in un generale abbraccio di grandi elettori ancora freschi di una battaglia elettorale combattuta senza scrupoli e all’arma bianca, nella maniera più incivile immaginabile. E paventa “una maratona elettorale a base di schede bianche, di candidati civetta e di franchi tiratori, in stile vecchia Dc”. Come quella che, dopo lo scontro fratricida fra Andreotti e Forlani, condusse, su istigazione di Marco Pannella, alla indicazione di Oscar Luigi Scalfaro, “il meno democristiano di tutti” come sostenne in modo convincente (in quanto veritiero) il leader radicale nel 1992. Una salita al Colle che il giornale francese di sinistra Liberation definì “una elezione che ha sapore di cenere” e che, in effetti, bruciò la Prima e diede inizio alla Seconda Repubblica.

Come finirà tra qualche giorno nelle votazioni di Montecitorio, è nella mente di Giove. Fare previsioni ragionevoli in presenza di un imbarbarimento generale che avvolge il Pd, è azzardato. Né è invocabile, in un consesso così laico e stralaicista, l’improvvisa illuminazione dello Spirito Santo. Se Bersani ascoltasse qualcuno di buonsenso, e non quanti lo incitano a “non mollare” l’insostenibile, sarebbe un bene per lui e, forse, per il paese. Ma la quadratura del cerchio sfugge a ogni logica matematica, chiunque cerchi d’imporla.

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