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Chi era Emilio Colombo, un riformatore conservatore

Soltanto due mesi fa s’era preso la soddisfazione di presiedere la prima seduta d’insediamento del senato della XVII legislatura dinanzi ad un’ondata di novizi folcloristici cui avrebbe avuto molto da insegnare sull’Abc della politica, oltre che sulle liturgie paludate che non si possono affrontare gettandosi allo sbaraglio all’arma bianca. Era il decano dei senatori, novantatré anni portati come un cinquantenne, una mente lucida, non arcigna, disponibile al colloquio.

Era stato, Emilio Colombo, l’ultimo superstite dell’assemblea costituente, il più giovane (dopo Fiorentino Sullo) di quei giovanissimi democristiani ch’avevano portato un’aria nuova nel cattolicesimo politico meridionale. Sbaragliando, nelle loro circoscrizioni, uomini di altissimo prestigio e di indiscusso potere come Vito Reale (il vero ispiratore dei governi Badoglio che del Regno del Sud aveva fatto la roccaforte di una monarchia in macroscopico declino, e tuttavia capace di conservare relazioni internazionali). I giovani rinnovatori democristiani, subito impegnatisi per la repubblica e divenuti maestri d’ideali ai troppo presuntuosi comunisti, che potevano vantare precedenti antifascisti ma non l’agilità e la preparazione mentale per convincere i cafoni del Mezzogiorno, che si rivelarono capaci di scalzare una decrepita classe liberale che, di meridionalismo non piagnone, avevano imparato ben poco.

Colombo giunse in costituente ch’era già qualcuno: il presidente mondiale della gioventù cattolica che, in un congresso tenuto a Praga a ridosso della liberazione del 1945, si era fatto apprezzare come un esponente di una generazione italiana fresca, non contaminata dal fascismo, decisamente antitotalitaria, convinta di doversi sporcare le mani con impegno generoso, ma mutando metodi e strumenti della lotta politica. Per tale ruolo sicuramente prestigioso Emilio fu addirittura indicato capolista della Dc nella circoscrizione Potenza-Matera. Dove si misurò con esponenti famosi come Francesco Saverio Nitti e Vito Reale) del centro-destra liberale, Fausto Gullo (comunista), Cifarelli (dell’alleanza repubblicana). Cerabona e Cianca, attori non secondari al congresso di Bari del Comitato nazionale di liberazione nazionale, nel quale avevano giganteggiato Benedetto Croce, Carlo Sforza e Giulio Rodinò, capo della Dc meridionale.

Colombo, la costituzione l’aveva fatta, ma non la considerava un feticcio; la difendeva, ma non disdegnava di aggiornarla, essendo la stessa società meridionale passata da sostanziale struttura agricola a terra di servizi e di ricerche energetiche e tecnologiche. Di suo, in tale processo di trasformazione, aveva dato molto: anzitutto interventi di riforma agraria finalizzati al risanamento e al riuso dei territori; la costituzione di enti di riforma che toccassero anche lavori di bonifica di aree depresse e malsane. Per non parlare del diuturno impegno a fare della Dc – che, nel profondo sud aveva in parte contribuito a forgiare – un partito di popolo, non un’accolita di corporazioni. Per un paio di decenni almeno si avvalse del contributo ideale e innovativo di esperti del settore. Ma i suoi principali collaboratori – e ispiratori – furono giovani come Tommaso Morlino, che, più tardi, sarebbe stato il più valido consigliere di Aldo Moro.

Colombo esplose al V congresso di Napoli della Dc dove De Gasperi passò le consegne alla seconda generazione di Iniziativa democratica e i congressisti tributarono, convinti, un caldissimo apprezzamento all’intervento del trentaquattrenne deputato di Potenza. Che aveva sostenuto tesi d’avanguardia fin lì sconosciute al popolo democristiano; e che Emilio aveva preparato col concorso decisivo di due-tre esponenti del movimento giovanile, coautori di un discorso rimasto negli annali della storia democristiana.

Da allora la carriera politica e di governo di Colombo fu tutta spianata. Sarebbe consistita in sottosegretariati, ministeri (sino alla presidenza del consiglio nel 1970), di relazioni e presenze internazionali (sino alla presidenza della comunità europea), ma soprattutto di leadership politica. Giacché, da Napoli in avanti, Emilio Colombo, col suo seguito di quadri meridionali cui forniva generose leve di comando, divenne e restò il perno del potere democristiano in Italia. Sino ad apparire come l’emblema stesso dell’occupazione dello Stato: ma con eleganza e idee di conduzione politica, non con faziosità e con sovrapposizioni alle strutture pubbliche.

Il suo sodalizio, da ministro del tesoro, con Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, spiazzò e invertì il corso del centro-sinistra moroteo, diede lena ai disegni restauratori di Antonio Segni, valse da collante interno alla Dc ad un continuo mutare di correnti e ricollocazioni politiche. Ma, in fondo, lui rimase sempre una sorta di supergovernatore repubblicano del Mezzogiorno, che sorvegliava perché non si eccedesse in sprechi; e si tentasse, con scarsa speranza, di restringere l’enorme gap con un nord più dotato, più operoso, ma anche più rapace. Anche per queste ragioni, ch’erano anzitutto culturali, Colombo non credeva nel mantra di un costituzionalismo fatto di compromessi, non di progetti. Era disponibile a discutere di innovazioni costituzionali; non si lasciò confondere dai piccoli cabotaggi che s’azzuffarono dopo il crollo della Dc: ch’egli valutò come una sciagura, non come un rimedio moralistico e giustizialista per fare, dell’Italia, un paese più moderno in un’Europa mediterranea.

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