Skip to main content

L’eurozona fa scuola. In Africa

Gli euroscettici possono consolarsi: qualcuno ha fatto tesoro dell’eurodisastro.

L’esperienza della moneta unica europea è stata una lezione memorabile per tutto il mondo. Tanto è vero che adesso chiunque voglia pensare di creare un’unione monetaria guarda al nostro continente per non commettere gli errori che abbiamo commesso, a caro prezzo, noi.

Il fatto che gli unici a parlare di unione monetaria di questi tempi siano gli africani d’oriente, poi, è un ulteriore occasione di riflessione. Non tanto perché siano africani, ma perché si tratta di economie difficili, che agiscono in contesti politici instabili, che provano a trovare denominatori comuni minimi capaci di dare un senso economico unitario a un’intera area geografica.

L’esatto contrario che abbiamo fatto noi europei, che abbiamo costruito un’unione monetaria senza riflettere davvero su cosa stavamo mettendo insieme.

Questa storia si legge poco sui giornali, perché quando si parla di Africa la sensazione è quella di avere a che fare con paesi talmente periferici che non vale la pena occuparsene. L’ennesimo atto di snobismo intellettuale di noi occidentali.

E invece leggendo l’intervento di Emmanuel Tumusiime-Mutebile, governatore della Banca centrale dell’Uganda, scopriamo di avere a che fare con persone assai avvedute, che ci guardano da lontano e imparano da noi.

O meglio: dai nostri errori.

Cominciamo dalla premessa. Il progetto di Unione monetaria africana riguarda un piccolo gruppo di paesi della costa est, in particolare quelli aderenti alla East African Community (EAC), che raggruppa il Burundi, il Kenya, il Rwanda, la Tanzania e, appunto, l’Uganda. L’area è abitata da oltre 135 milioni di persone, con un Pil complessivo (a prezzi di mercato) di 84,7 miliardi di dollari, per una media procapite di 732 dollari.

Entro quest’anno, così almeno dice il nostro governatore, i paesi aderenti all’EAC dovrebbero firmare il protocollo per l’introduzione dell’EAMU, che sta per East African Monetary Union, iniziando un percorso che, nelle previsioni, dovrebbe durare almeno un decennio prima di condurre a un’effettiva unificazione attraverso riforme giuridiche, istituzionali ed economiche.

Un percorso complicato, e noi europei lo sappiamo bene, che però deve partire dalle giuste premesse per evitare che i paesi aderenti finiscano con l’essere danneggiati anziché beneficiati dall’Unione.

Le premesse sono chiare. “Affinché un’unione monetaria abbia successo – dice il banchiere – occorre che ogni stato partner sia preparato ad accettare la messa in comune della propria sovranità”.

Sembra scontato, ma il dibattito europeo mostra con chiarezza quanto sia difficile attuare in pratica questo principio teorico.

“La messa in comune della sovranità economica va aldilà della perdita dell’indipendenza della politica monetaria e del tasso di cambio, che sono inerenti in un’unione monetaria. Richiede che ogni partner accetti vincoli sulle politiche fiscali e implementi un mercato unico che includa non solo il libero commercio di beni e servizi, ma anche il libero movimento di capitali“. Una consapevolezza, quest’ultima, che solo di recente, con il dibattito sull’Unione bancaria, sta iniziando a fare breccia in Europa.

“Se non costruiremo tali requisiti – avverte – l’introduzione dell’unione monetaria potrebbe danneggiare le nostre economie”. E non è un caso che il nostro governatore citi i casi di Spagna, Portogallo e Grecia “che hanno perso competitività sui mercati internazionali e non possono neanche usare il tasso di cambio”, la qualcosa “è una salutare lezione per chiunque sia coinvolto in un piano per l’introduzione dell’EAMU”.

A questo punto qualcuno potrebbe chiedersi quali benefici pensano di ottenere questi paesi da un’unione monetaria. La prima risposta, quella ovvia, è che dall’integrazione dovrebbero giovarsi il commercio interno, sgravato dal rischio di cambio e il settore produttivo, che potrebbe godere di maggiori economie di scala, capaci di trasformare le imprese coinvolte nel processo in competitors globali.

Fin qui siamo nel campo degli auspici.

Più interessante è la costatazione che una valuta regionale potrebbe mettere al riparo, in virtù del proprio peso specifico, dalle fluttuazioni del mercato dei cambi, specie quelle del dollaro. La volatilità delle valute, infatti, è uno dei problemi principali con il quale devono fare i conti questi paesi periferici, che spesso non riescono a sviluppare, di conseguenza, il flusso degli investimenti privati sui loro territori.

E poi c’è il famoso “dividendo”: “L’introduzione dell’EAMU sarebbe la prova dell’impegno degli stati partner a costruire un futuro comune”, e quindi un importante riconoscimento da parte della comunità internazionale, con tutto ciò che questo porta con sé, a cominciare dagli investimenti diretti nell’area.

Con la moneta unica, insomma, i paesi dell’EAC potrebbero entrare (o almeno aspirano ad entrare) nel club delle economie maggiori.

Senonché, spiega il nostro banchiere, per riuscire nell’impresa bisogna soddisfare innanzitutto alcuni pre-requisiti.

La costruzione del mercato comune, innanzitutto, con l’eliminazione delle barriere che ancora esistono fra i singoli stati per la libera circolazione di uomini, servizi e capitali. Ma, ancora più rilevante, è mettere i paesi aderenti all’Unione nella condizione di non soffrire “shock economici idiosintocratici”. Ossiai shock che che colpiscono l’economia di uno stato partner, ma non gli altri.

Ed è su questo tema che la lezione dell’eurozona per l’Africa, diventa una lezione africana per l’eurozona.

“Per un’economia con la sua moneta, la risposta ottimale a uno shock macroeconomico coinvolge usualmente la politica monetaria: un’economia può aggiustare il suo squilibrio esterno tramite la svalutazione del suo tasso reale di cambio. E’ evidente – sottolinea – che un membro di un’unione monetaria non può usare tali politiche e questo lo lascia più esposto alle conseguenze avverse di tali shock. Tuttavia l’integrazione regionale offre strumenti alternativi di aggiustamento. Se ad esempio un paese dell’Unione subisce un declino dei prezzi dei beni che esporta, e quindi arriva a soffrire una recessione, potrà superare lo shock se i suoi produttori domestici potranno indirizzare una maggiore quantità di prodotto verso i paesi partner”.

La famosa solidarietà.

Ciò significa, ad esempio nel caso dell’eurozona, che i paesi in deficiti dovrebbero esportare di più verso i paesi in surplus, che quindi vedrebbero aumentare il proprio consumo interno e diminuire il loro saldo commerciale.

Esattamente quello che non è avvenuto nell’eurozona.

“Quello che voglio dire – spiega – è che se introduciamo una valuta unica in un’area senza meccanismi di assorbimento degli shock, rischiamo di esporre ai paesi a grande volatività macroeconomica”.

Appunto.

“Il secondo pre-requisito per una unione monetaria di successo sono politiche fiscali comuni efficaci, come è chiaramente dimostrato dai problemi che affliggono alcuni membri dell’eurozona, in particolare la Grecia. La credibilità di una politica monetaria comune dipende dalla circostanza che la banca centrale non debba mai finanziare i deficiti degli stati membri. Sfortunatamente è difficile per una banca centrale farlo perché ci possono essere circostanze nelle quali provvedere al finanziamento di uno stato in deficit è il male minore rispetto a un default sovrano che potrebbe creare una crisi finanziaria nell’Unione”.

Anche qui, ha fatto scuola la Bce, “che si trova di fronte a questo dilemma da quando la crisi è emersa”. “Un default sovrano, ad esempio in Italia, – sottolinea – non colpirebbe solo gli italiani, il danno sarebbe per tutta l’eurozona”.

“Per evitare tutto ciò è necessario che il debito pubblico dei singoli stati sia sostenibile e anche sia percepito come tale. L’eurozona ha meccanismi tesi ad assicurare la sostenibilità dei debiti pubblici, ma che però non sono stati adeguatamente rinforzati” al contrario di quanto si propone di fare l’EAMU.

Altro che poveri africani.

×

Iscriviti alla newsletter