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Perché il Pentagono fa la guerra a Obama in Siria

Il presidente Barack Obama ha iniziato la sua offensiva mediatica per convincere i cittadini americani della necessità di un intervento militare in Siria.
L’opinione pubblica a stelle è strisce, come sottolineano diversi sondaggi, è profondamente divisa sul da farsi e non comprende l’utilità di questo nuovo conflitto.

Ma il Commander in Chief deve cercare consensi anche all’interno delle istituzioni. Mercoledì si rivolgerà al Congresso, al quale ha chiesto di avallare l’attacco militare contro Damasco, giustificato da un rapporto dell’intelligence che proverebbe in modo inequivocabile una connessione tra l’uso di armi chimiche dello scorso 21 agosto e il regime di Bashar al-Assad.

Un compito tutt’altro che facile viste le tante divisioni che attraversano il Parlamento, alle quali si somma ora lo scetticismo di un’altra istituzione apicale, il Dipartimento della Difesa.

A squarciare il velo della tradizionale riservatezza militare è stato il commento di un maggior generale dell’esercito in pensione, Robert H. Scales, che dalle colonne del Washington Post ha duramente criticato Obama, defininendo quella siriana “una guerra che il Pentagono non vuole“.

LE CRITICHE DEL PENTAGONO
Dopo aver raccolto le confidenze di diversi soldati e ufficiali, Scales ritiene che al Dipartimento della Difesa ci sia “imbarazzo per essere associati con il dilettantismo dei tentativi dell’Amministrazione Obama di predisporre un piano che abbia un senso strategico e che esporrebbe solo a una inutile perdita di vite umane. Nessuno alla Casa Bianca – prosegue l’ex maggior generale – ha qualche esperienza in guerra o la comprende“.
Per Scales le pecche dell’azione di Obama sarebbero di duplice natura: strategica (dopo i temporeggiamenti delle scorse settimane non vi sarebbe “effetto sorpresa” né “un obiettivo definito“) ed etica (perché non vi sono minacce immediate alla sicurezza americana, quanto alla credibilità del presidente dopo le sue parole avventate sulla “red line” che Assad non avrebbe dovuto oltrepassare).
Critiche che – secondo Al-Jazeera America – sono rese ancora più autorevoli dai dubbi dello stesso Capo dello Stato Maggiore congiunto delle forze armate statunitensi, Martin Dempsey (nella foto), lacerato da un interrogativo: cosa accadrà quando questa guerra-lampo sarà finita?

IL PROBLEMA DEI FONDI
Ma l’improvvisa ritrosia del Pentagono a un impegno militare contro Damasco potrebbe anche essere frutto di una precisa strategia. Ad insinuare il dubbio è un commento pubblicato sul sito web della Cnn a firma di William D. Hartung, direttore dell’Arms and Security Project presso il Center for International Policy. L’analista spiega come sia già in atto un’offensiva di alcuni “falchi” repubblicani, tra cui il senatore John McCain e il presidente della commissione Forze armate della Camera , Howard P. “Buck” McKeon, che hanno sostenuto che i costi di attacchi militari contro la Siria giustificherebbero un passo indietro rispetto ai tagli previsti dall’Amministrazione Obama alla spesa del Pentagono.
Un intento che – come documentato da Reuters – fa il paio con i ripetuti appelli dello stesso Dipartimento della Difesa, che da tempo chiede al Congresso e alla Casa Bianca di non ridimensionarne immediatamente il budget.

UN NUOVO PIANO
Dietro i “capricci” del Pentagono ci sarebbe dunque solo una richiesta di maggiore sostegno e visibilità, che forse Obama ha deciso in ultima istanza di accordargli. Il presidente americano – come svela il New York Times – ha deciso di accettare la proposta del Dipartimento della Difesa di approfittare della guerra contro Damasco prolungando tempo e forza dell’offensiva per eliminare quanti più obiettivi strategici possibili, contrariamente ai cinquanta che il Commander in Chief aveva identificato come sufficienti a condurre un attacco efficace ma rapido, che non indispettisse ulteriormente la comunità internazionale.

Un nuovo piano che potrebbe consentire a Obama di vincere su più fronti. Da un lato consentirebbe al presidente americano di calmare le acque sul fronte interno, ma potrebbe anche coniugarsi a una possibile tregua internazionale con l’Iranche aprirebbe definitivamente la strada del regime change in Siria e rafforzerebbe le “convergenze” americane con Mosca per contrastare le ambizioni politiche ed economiche dei Paesi Emergenti.

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