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Quanti indizi fanno una prova tra Obama e Rohani?

Quale gesto segnerà l’inizio del disgelo: sarà una stretta di mano? Un cenno della testa, un sorriso? Saranno Barack Obama e Hassan Rohani a sedersi insieme su un divanetto di velluto rosso martedì prossimo al Palazzo di Vetro o toccherà al segretario di stato americano John Kerry e al ministro degli esteri iraniano Javad Zarif il ruolo di protagonisti del primo plateale esperimento di distensione dal ’79? La prova del successo della fantasmagorica Blitzkrieg diplomatica iraniana – dalla liberazione dei prigionieri politici, all’intervista alla Nbc di Rohani, dal suo op ed sul Washington Post agli auguri di Rosh Hashanah – è che all’improvviso qualsiasi scenario appare plausibile. (Karl Sharro ha parodiato qui le fasi dello scambio epistolare tra il presidente americano e quello iraniano, ma il rischio di questi tempi è che la realtà corra più veloce della fantasia)
“Nel mondo della politica – ha detto Rohani a proposito dell’ipotesi di un incontro con il presidente americano – tutto è possibile” ed a Teheran ci sono giornalisti che si arrovellano già sul nome del quotidiano iraniano che pubblicherebbe un op ed di Obama (Bahar? Shargh? IRAN?).

Agli osservatori non resta che scandagliare i segnali dell’engagement (quanti indizi fanno una prova?) e Rohani cavalca l’esprit du temps rivolgendosi agli scettici: dimenticate le vecchie dinamiche falchi/colombe, guida suprema/presidente. Ora siamo tutti nella stessa squadra. Khamenei non si metterà di traverso, non stiamo più giocando al poliziotto buono e al poliziotto cattivo. Io ho l’autorità che mancava ai miei predecessori, non sono un altro Mohammed Khatami che discetta di “dialogo tra le civiltà” promettendo cose che non può mantenere. Questa partita la conducono realisti con un mandato preciso (“a mandate for prudent engagement” ha scritto Rohani sul Washington Post) cogliete questa opportunità perché non ve ne capiterà una migliore. “E’ un momento unico nella storia della Repubblica Islamica – ha detto Farshad Ghorbanpour, analista politico vicino a Rohani al New York Times – motivazioni economiche giustificano ora le motivazioni politiche per il dialogo con gli Usa”.

Le sanzioni hanno dimezzato i proventi petroliferi (da 2,4 milioni di barili al giorno nel 2011 a meno di 1 milione adesso) il rial è precipitato, l’inflazione è alle stelle. Khamenei appare disposto a bere il calice amaro della trattativa per evitare uno strike israeliano e tutelare la pace sociale. Ha chiesto ai pasdaran di evitare le provocazioni, ha invocato la “flessibilità eroica”. Resta però un equivoco di fondo a minacciare le profferte diplomatiche iraniane: è l’incertezza riguardo non tanto ai confini, ma al senso della “flessibilità eroica” di Khamenei.
Sono più di dieci anni che in Iran si dibatte la necessità dell’engagement. Nel 2002 fu Abbas Abdi a lanciare il sasso con un sondaggio in cui si chiedeva agli iraniani se fossero favorevoli a ristabilire relazioni diplomatiche con gli Usa: il 70% assentì. Giornalista, sociologo, animatore di cenacoli intellettuali riformisti, Abdi per uno di quei curiosi cortocircuiti della storia era stato uno degli studenti protagonisti della presa dell’ambasciata americana. Quel sondaggio gli costò il carcere anche se proprio in quegli anni Javad Zarif (prima come vice-ministro degli esteri poi come ambasciatore iraniano all’Onu) si sedeva regolarmente con gli inviati di George W Bush per discutere dell’Afghanistan post Taliban. Nella primavera del 2003 con gli americani in Iraq, Rafsanjani suggerì sul mensile Rahbord che la questione delle relazioni con l’America andava risolta con un referendum nazionale. Dietro le quinte intanto, nonostante i buoni uffici di Zarif naufragava l’ipotesi del cosiddetto grand bargain ignorato da Bush e l’elezione di Ahmadinejad siglava il declino dei cosiddetti pragmatici. Quello che colpisce è che dall’arresto di Abdi dieci anni fa la questione dell’engagement con gli Stati Uniti si è spostata dai think tank ai quotidiani. Non è più un tabù (e la querelle nucleare è vista come parte integrante di questo pacchetto). La distensione del resto l’hanno vagheggiata sia Khatami sia Ahmadinejad. Resta un un problema però. Una parte della dirigenza iraniana – li chiamano pragmatici, realisti, moderati – vuole far entrare in Iran capitali e corporation, desidera varcare la soglia del salotto buono internazionale ed è disposta ad offrire concessioni sul nucleare per farlo. Sono coloro che hanno gravitato per vent’anni intorno al Centro di studi strategici della capitale, pragmatici e riformisti alleati all’inseguimento di un “modello cinese” per Teheran. Poi però bisogna fare i conti con gli altri: Khamenei e il suo entourage, fazioni pasdaran e fondazioni religiose che temono davvero più della peste un cedimento ideologico e guardano con terrore all’invasione culturale occidentale. Il dissidio tra questi due gruppi – moderato dalle sanzioni e dall’esigenza di allontanare lo spettro di una primavera persiana – non è solo sulla forma della politica estera ma sulla sostanza. Il fine di entrambi gli schieramenti è assicurare la continuità del sistema khomeinista, ma ciascuno interpreta a modo suo l’ “interesse superiore” del regime. Fino a dove arrivano il mandato di Rohani e la “flessibilità eroica” di Khamenei? E’ anche tra le pieghe di questo equivoco che Obama dovrà giocare la sua partita con Teheran per risollevare l’eredità di un mandato devastato dalla débâcle siriana.

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