Skip to main content

Vi spiego perché a Montreux dovete parlare della generazione perduta in Siria

Non ho per nulla la sensazione che la guerra finirà. Ma il conflitto siriano che a marzo entrerà nel terzo anno di sangue, stragi e dolore, deve finire. Nella consapevolezza che esistono equilibri internazionali “delicati” che hanno portato a tutto questo, non esistono motivazioni così esaustive da convincere che tutto ciò era inevitabile. È giusto vedere 5,5 milioni di bambini colpiti dal conflitto di cui 4,2 all’interno della Siria? Circa 1,2 milioni di bambini rifugiati, 4000 scuole distrutte, circa 8000 piccoli innocenti morti? Eppure questi sono solo alcuni dei numeri spaventosi di una ecatombe che nessuno riesce a fermare, neanche i macigni “piovuti” dal cielo di Papa Francesco che più volte è intervenuto chiedendo la pace.

Il tema di discussione a Montreux è semplice ed uno solo: esiste una generazione perduta, che l’Unicef ha chiamato Lost generation che ha perso tutto, che non va a scuola, che vive tra fango, sassi e melma, per non usare altri termini, in tende e accampamenti nei paesi limitrofi: Giordania, Iraq, Turchia, Egitto, Libano, dove cominciano a salire le tensioni.

Una generazioni di bambini che non ha conosciuto la propria casa perché è nata in un campo profughi, stroncata dal dolore della perdita dei parenti oppure mutilata, offesa nella sua dignità di nazione e parcheggiata in casa altrui. Una generazione di giovani con gli occhi pieni di odio, di ragazze vendute a ricchi emiri per pochi soldi, umiliata da matrimoni precoci spesso rimedio alla disperazione, per non parlare di bambini arruolati come soldati a fare di tutto: i cuochi, i portantini, i messaggeri e ad imbracciare i fucili e sparare ad altri bambini. Parliamo a Montreux, di tutto ciò che “siamo riusciti a combinare” pur avendo pronunciato, ciascuno con la sua buona dose di retorica, mille volte la parola “Mai più” negli ultimi 20 anni, che pure hanno visto il Ruanda e la Bosnia inorridire i nostri occhi, senza dover andare troppo indietro negli anni… E’ una crisi umanitaria senza precedenti.

Si parli di questo a Montreux, di come è possibile andare ad Irbid, nei pressi di Amman e sentire bambine siriane di Deraa che a scuola cantano l’inno giordano davanti agli occhi increduli e colmi di lacrime dei propri genitori profughi, della ragazza dodicenne che ti chiede di parlarti all’orecchio, come è accaduto a me e di dirti se puoi raccontare ai media italiani che prima di fuggire avevano piantato un colpo in testa a suo padre, accusato di essere un “ribelle” (oggi in Siria non si capisce più neanche rispetto a chi”) ma che “ora però sta meglio, barcolla un po’”.

Si parli di come è possibile che nel campo di Yarmouk da 187 giorni non si possono portare aiuti umanitari e centinaia di bimbi muoiono malnutriti. A Montreux c’è un solo tema da affrontare: riportare a casa al più presto una generazione di bambini e le loro famiglie che ancora oggi, quando li vedi sbarcare sulle nostre coste o sorseggiare un the sotto le tende al caldo, al freddo, con la neve e la pioggia, riescono ancora a sorridere e raccontare la loro storia con la dignità di chi non si aspetta soluzioni di compromesso ma aspetta paziente, fin troppo paziente, la notizia più importante: la pace.

Andrea Iacomini è portavoce di Unicef Italia

 

CONDIVIDI SU:

Gallerie fotografiche correlate

×

Iscriviti alla newsletter