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Evviva, con Renzi la politica liquida la tecnocrazia

C’erano una volta i tecnici. Nel nostro Paese si tratta di una nomenclatura di cosiddetti competenti specializzati che sono chiamati a servire il Paese nei momenti bui della Repubblica, quando cioè i politici non riescono a gestire il bene comune. Di solito provenienti dalla Banca d’Italia, costoro hanno sempre dei grandi legami internazionali.

Sempre esistiti, i tecnici sono diventati in Italia una specie di “casta buona”, la quale ha finito per soppiantare la classe politica man mano che questa perdeva potere, attendibilità, consenso. Dal 1990 in poi abbiamo avuto diversi governi tecnici di questo tipo, tutti con una rilevante presenza di tecnici: Ciampi, Dini, Amato, Padoa-Schioppa, Siniscalco eccetera. Poi si è arrivati, negli ultimi anni, a dover ricorrere perfino alla nomina di un senatore a vita per averne uno: Mario Monti.

Quello che stupisce, in realtà, è che nel ruolo sempre più influente di Ministro dell’Economia i tecnici sono apparsi una risorsa indispensabile, insostituibile; una concessione di potere a estranei che è stata una tacita ammissione che la politica non è in grado di esprimere realmente delle autonome capacità decisionali, indipendenti dalla valutazione, per l’appunto, tecnica, che solo il tecnico può dare. In questo slittamento dal politico al tecnico c’è di mezzo una drammatica cessione di sovranità popolare a degli ottimati, i quali, come il termine stesso dice, sono dei bravi oligarchi, non suffragati dal consenso.

In tal senso, non c’è stata una reale differenza tra il Governo Monti e il Governo Letta. In entrambi i casi, infatti, vi è stata una continuità tecnica all’economia tra Vittorio Grilli, Monti, che ne ha assunto l’interim, e Fabrizio Saccomanni.

Inaspettatamente in queste ore sta accadendo, però, un fenomeno contrario, a dir poco rivoluzionario. Vale a dire, un forte rafforzamento della politica, connesso a una forte rivendicazione anti tecnocratica, unico vero lascito positivo dell’antipolitica. E in democrazia un fenomeno del genere occorre solo quando emergono leadership che hanno un largo consenso popolare. A dire il vero, nel centrodestra la gestione di governo ed economia è sempre stata molto politica, al contrario del centrosinistra che ha per anni contrapposto le competenze di merito al potere di fatto. Il problema era che il potere politico era comunque in sé debole davanti alle pressioni nazionali e internazionali che agivano sui mercati, complice la BCE, facendo ammontare speculativamente spread e altre speculazioni finanziarie.

La novità vera è che ora anche nel più grande dei partiti di sinistra è venuto fuori un personaggio, Matteo Renzi, che giustamente vuole riportare la politica al ruolo che gli spetta pure dalla sua parte, in tal modo spostando il baricentro del potere verso la gente, vale a dire verso i suoi elettori, che sono tornati a contare nelle decisioni di future maggioranze e opposizioni.

Tutti i contrasti che stanno emergendo, quindi, tra l’esecutivo, guidato da Enrico Letta, e il Partito Democratico riguardano esattamente questo sottile contrasto, delicato sì, ma di straordinaria importanza. Renzi giudica lento l’attuale governo, ossia non in grado – com’egli ha detto – di dimostrare ai cittadini qualcosa di veramente concreto che sia stato fatto nei diciotto mesi di tempo a disposizione. In verità, egli giudica la mentalità di molti ministri impopolare, non perché incompetente, ma perché tecnocratica. Letta, di tutta risposta, continua a replicare invece chiedendo al suo partito la stabilità necessaria per adempiere la propria finalità amministrativa e tecnocratica.

Due visioni opposte, insomma, associate a due biografie dissimili, le quali inevitabilmente sono destinate dal principio a entrare in rotta di collisione. Se Renzi ha una mira puramente politica, vale a dire accrescere progressivamente il suo consenso nazionale, Letta, viceversa, punta a godere di maggiore credito internazionale, guadagnandosi così un ruolo di rilievo in Europa.

Le cose viste dal punto di vista dei cittadini, però, sono molto, molto più semplici. Un governo non è popolare se ha o non ha una capacità tecnica di gestire i problemi, ma se sa risolverli. Un politico, infatti, può sempre contornarsi di ottimi esperti che lo aiutino a fare quello che vuole fare; e anche un tecnico può fare cose estremamente popolari, se vuole. Un governo è davvero popolare e democratico se riesce a fare quello di cui la gente ha bisogno veramente. E ciò, a scanso di equivoci, non ha niente a che vedere con populismo e demagogia, perché appartiene alla definizione più antica di bene comune, molto più antica cioè perfino della democrazia moderna a suffragio universale. Governare per il bene comune, in sostanza, è fare ossequiosamente l’interesse comune. Punto. Il resto, nel migliore dei casi, non è antidemocratico, è solo sbagliato.

Un fattore decisivo, nei prossimi giorni, sarà pertanto la natura di questa divergenza tra Renzi e Letta, ovverosia l’entità dell’opposizione tra tecnocrazia e democrazia. La popolarità del sindaco di Firenze, infatti, cresce, e quella di Berlusconi non diminuisce, perché monta il bisogno generale dei cittadini di avere una politica più forte e più sintonizzata con l’opinione pubblica, sia pure in modo corrispondente agli interessi divergenti dei due rispettivi blocchi sociali. Non a caso Forza Italia e PD, all’unisono, hanno chiarito di non voler governare insieme, ma di voler fare insieme le riforme che servono alla democrazia, in primis l’Italicum, per poi andare subito a votare, anche con un Letta bis o un Renzi primo tempore.

Una sola cosa, a ogni buon conto, è morta per sempre: l’epoca della neutralizzazione tecnocratica della sovranità politica. Pertanto o Letta si muove, oppure presto si torna a votare con o senza la nuova legge elettorale.

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