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Renzi tassa tutto tranne Google

Pubblichiamo grazie all’autorizzazione di Class Editori un articolo di Tino Oldani uscito sul quotidiano Italia Oggi diretto da Pierluigi Magnaschi.

Dobbiamo essere grati a un manager tedesco che nei giorni scorsi ha rimesso sul tappeto una questione fondamentale per il futuro dei giornali liberi e, senza esagerare, della stessa democrazia in Europa. Mi riferisco a Mathias Döpfner, amministratore delegato del gruppo editoriale Axel Springer, colosso dell’editoria in Germania, il quale ha scritto un articolo-lettera aperta sul quotidiano liberal-conservatore Frankfurter Allgemeine, una testata autorevole che però non appartiene al suo gruppo.

LA LETTERA

Tema della lettera: un attacco senza precedenti a Google, primo motore di ricerca al mondo, in risposta a un precedente articolo – uscito sempre sulla Frankfurter Allgemeine – del ceo di Google, Eric Schmidt. Quest’ultimo, prendendo spunto proprio dal suo recente accordo con il gruppo Alex Springer, si era scagliato contro i «mercati troppo regolati», che a suo avviso «ne mettono a rischio il benessere». In sostanza, un attacco all’Unione europea, che da tempo ha acceso i fari su Google nella convinzione che il motore di ricerca di Mountain View stia violando una serie di norme antitrust. In risposta all’articolo di Schmidt, l’amministratore delegato di Alex Springer ha riconosciuto che le relazioni di mercato tra il suo gruppo e Google sono soddisfacenti, ma ha anche precisato che la sua azienda non aveva alternative all’intesa «perché non vedevamo alcun motore di ricerca alternativo che ci garantisse di ampliare la nostra presenza on line». Con franchezza teutonica, ha poi aggiunto: «Google ha troppo potere, c’è da avere paura, tutti noi dei media liberi, sia online che cartacei. Oggi esiste un monopolio globale del network, e quindi è della massima importanza creare i criteri di trasparenza, lealtà e giustizia in cui debba operare Google». Più avanti: «Google ha il potere di discriminare i suoi rivali o competitors nei motori di ricerca». Per questo ha fatto bene la Commissione Ue a criticare «un modello di business che in ambienti poco onorevoli si chiama estorsione». Un’accusa tranchant, senza precedenti. Ma con qualche fondamento.

GLI ABUSI DI GOOGLE

Di fronte all’Antitrust europea, Google è accusato di vari abusi, che se provati potrebbero comportare pesanti sanzioni. Il commissario Ue alla concorrenza, Jaquin Almunia, alcuni mesi fa ha minacciato una multa esemplare, simile a quella che a suo tempo Mario Monti inflisse a Microsoft. Ma finora si deve prendere atto che Google l’ha fatta sempre franca, sia a livello europeo che nei singoli Paesi in cui opera. Questo vale anche per l’Italia, dove l’idea di introdurre una «Google tax», lanciata alcuni mesi fa dall’ingegner Carlo De Benedetti, editore di Repubblica, è stata stranamente vanificata proprio dal suo pupillo Matteo Renzi, che all’epoca non era ancora diventato premier. Da segretario Pd, Matteo Renzi mise il veto su un testo di legge preparato da Francesco Boccia (Pd), presidente della commissione Bilancio, sostenendo che la tassazione di Google non era un problema nazionale, ma europeo, che sarebbe stato affrontato in sede Ue più avanti nel tempo, in accordo con gli altri Paesi. Da allora sul tema non si è più mossa una foglia. Un immobilismo davvero strano, visto che dovendo trovare per i prossimi anni una copertura strutturale del bonus di 80 euro, il premier ha scelto di tassare ancora una volta i risparmi e i conti correnti, dimenticando del tutto l’ipotesi della Google tax. E questo è davvero singolare se si considera che tutte le maggiori web company (Google, Facebook, Amazon, Apple e Microsoft) sono tra le società più ricche al mondo, ma anche le più abili nell’aggirare le regole fiscali, con il risultato che dovunque pagano imposte risibili.

LA GOOGLE TAX

Quando lanciò l’idea della Google tax, De Benedetti spiegò che il motore di ricerca di Mountain View si accaparra di quantità crescenti di pubblicità online, sottraendola all’editoria tradizionale (che per questo è in crisi), ma senza pagarci sopra le imposte come devono fare gli editori italiani. Secondo alcune ricerche, i ricavi pubblicitari fanno oggi di Google il secondo operatore in Italia dopo Publitalia, concessionaria del gruppo Fininvest, che fattura più di 4 miliardi di euro. La sede fiscale di Google è però in Irlanda, dove le imposte sono minime. Ed è proprio grazie ai regimi fiscali favorevoli di Paesi come Irlanda, Olanda e Lussemburgo, che Google e le altre Web company riescono ad aggirare legalmente i regimi fiscali di mezzo mondo, compresi gli Stati Uniti dove sono nate.

QUESTIONE DI TASSE

Solo negli Usa si stima che Google abbia risparmiato nel 2012 ben 2 miliardi di dollari di tasse. In Inghilterra il Financial Times ha calcolato che nel 2012 le prime 7 web company abbiano pagato appena 54 milioni di tasse su oltre 15 miliardi di ricavi in sterline sul mercato britannico: una vera inezia, definita «tax bonanza». In Francia il fisco ha stimato che Google, Amazon, Apple, Facebook e Microsoft abbiano pagato nel 2011 appena 37,5 milioni di tasse invece degli 800 milioni che avrebbero dovuto se sottoposte allo stesso regime fiscale delle aziende europee. Quanto all’Italia, i ricavi reali delle web company sono avvolti nel mistero, cosa che rende loro più facile sfuggire al fisco di casa nostra.

E IN ITALIA…

In attesa che Renzi decida di porre all’ordine del giorno del suo governo la Google tax, cosa che potrebbe dare un senso al semestre italiano di presidenza europea, vale la pena di ricordare il monito finale del ceo di Springer. Citando Larry Page, uno dei fondatori di Google, che «sogna un mondo senza leggi sulla difesa della privacy e senza principio di responsabilità», Döpfner scrive: «Vuol forse dire che Google progetta di operare in un vacuum di legalità, in un mondo senza controlli antitrust e leggi a difesa della privacy? In una sorta di Superstato?»

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