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Vi spiego perché odio (e un po’ amo) Matteo Renzi

Nei “Promessi sposi’’, dopo aver indossato il saio, Fra Cristoforo si reca nel palazzo della persona che aveva ucciso in duello per implorare il perdono del fratello, il quale resta tanto impressionato per quel sincero pentimento che, dopo averlo congedato, esclama (cito a memoria): “Diavolo di un frate, poco mancava che gli chiedessi perdono io per avermi ammazzato il fratello’’.

A me Matteo Renzi non ha ucciso nessuno. Si è soltanto limitato a prendere a calci quelle istituzioni politiche, sociali e civili in cui credo e all’interno delle quali ho trascorso tutta la mia vita. Credo che non riuscirò mai a perdonarglielo, anche se non sono più sicuro di avere ragione io; ma questo nuovo mondo non mi piace. Anzi, mi fa venire in mente un film di Tony Richardson del 1968 ( “I seicento di Balaklava’’ nel titolo italiano) che raccontava la verità storica (non quella agiografica di Michael Curtiz, con tanto di Errol Flynn, ne “La carica dei seicento’’ del 1936) del celebre assalto della Brigata di cavalleria leggera inglese nella valle di Balaklava durante la guerra di Crimea (dal 1853 al 1856).

Seicento cavalleggeri furono mandati al massacro, sotto il fuoco delle batterie di cannoni russi, a causa di un ordine sbagliato o male interpretato. Nel film, il comandante della spedizione inglese – un anziano generale che citava sempre i duca di Wellington con cui aveva combattuto nelle campagne contro Napoleone – rivolto ad un giovane ufficiale che si era accorto dell’errore e che cercava disperatamente di rimediarvi – affermava: “Non mi piace quell’ufficiale, cavalca troppo bene, è sempre sicuro di sé, non sbaglia mai. Quando tutti saranno come lui, la guerra somiglierà ad un assassinio’’.

Ecco, più modestamente, io nutro questi sentimenti nei confronti di Renzi e dei suoi. Quando tutti agiranno come lui la politica non sarà più la difficile sintesi tra kratos ed éthos, tra il potere e l’etica, ma resterà solo un’esibizione di potere. Eppure, quel diavolo d’un Renzi, quasi quasi, mi induce a chiedergli scusa, perché il decreto Poletti (il primo atto che diventa legge per la sola iniziativa del suo governo) è un provvedimento particolarmente innovativo, tanto che, in buona fede, si stenterebbe a ritrovarne, andando indietro negli ultimi anni, un altro di analoga importanza.

E’ una delle poche volte che, in Italia, la questione del lavoro viene affrontata venendo incontro alle esigenze reali delle imprese, riconoscendo che sono loro a creare occupazione e che, nella generalità dei casi, si comportano correttamente con i lavoratori. Le modifiche introdotte al Senato hanno sicuramente rimosso una buona parte del piombo che la sinistra del Pd aveva inserito nelle ali del decreto alla Camera. Si tratta sicuramente di modifiche significative ed utili sia per quanto riguarda la disciplina del contratto a termine, sia quella dell’apprendistato. Ma il dato più clamoroso si trova nella scelta di fare del contratto a tempo determinato la via maestra delle assunzioni in Italia, anche allo scopo dichiarato di ‘’ridurre il contenzioso’’.

Quando mai la sinistra, da noi, ha ritenuto opportuno sottrarre il rapporto di lavoro alle forche caudine di un giudice quasi sempre ‘’amico’’, orientato a dare ragione al lavoratore in nome della retorica del ‘’contraente più debole’’ al quale vengono riconosciuti tanti diritti di cui non può disporre perché ritenuti inderogabili ? Si è detto che, con il testo del Senato, si tornava alla legge Biagi dopo aver misurato gli effetti non proprio entusiasmanti (si fa per dire) della riforma Fornero. E’ vero se si fa riferimento all’impostazione culturale del decreto Poletti, ma non lo è se si rimane nel perimetro delle norme.

La legge Biagi, infatti, non si occupava di lavoro a termine. Sono più veritiere le connessioni con la legge n. 30 per ciò che concerne la normativa sull’apprendistato. Non dimentichiamo, però, che tra i critici del decreto ora in conversione, proprio sulla questione dell’apprendistato, c’è Michele Tiraboschi: in pratica l’esecutore testamentario e l’interprete autentico del pensiero del professore bolognese ucciso il 19 marzo 2002 dalle Brigate rosse.

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