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La Turchia di Erdogan può entrare nell’Ue?

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Gianfranco Morra, apparso sul quotidiano Italia Oggi.

Un successo sicuro, anzi l’ottavo successo consecutivo, da quando, nel 2002, dopo gli anni in cui fu sindaco di Istanbul, dette inizio al suo progetto politico. La Turchia è stata, dal 1924, la prima nazione islamica ad assumere non pochi elementi della tradizione europea: distinzione tra religione e stato, divisione dei poteri, abbandono della grafia araba, matrimonio monogamico, suffragio femminile, scuola laica, eliminazione della pena di morte.

Erdogan si guarda bene dal rifiutare a parole queste innovazioni, ma le riempie di un integralismo islamico per ora trattenuto, che finisce per condizionare la vita privata dei cittadini.

In fondo, il suo modello politico è Putin: un populismo nazionalista religiosamente tinto, che realizza un autoritarismo con le apparenze della democrazia e mantiene al potere le stesse persone. Come Putin, Erdogan è stato tre volte premier, ora è divenuto il primo presidente della repubblica turca eletto direttamente dal popolo. La vittoria al primo turno molto lo rafforza e gli consente di nominare il premier e la Corte Costituzionale.

Una elezione avvenuta dopo fatti preoccupanti per la democrazia e lo stato di diritto: la dura repressione, con morti, delle proteste di Gezi Park, le accuse di corruzione e di nepotismo, la censura a stampa e social network, la pretesa di definire il «corretto comportamento» delle donne, non solo con i veli, ma anche con la limitazione del sorriso. Si sperava che il popolo ne avrebbe tenuto conto, invece così non è stato. E anche le due città più importanti e «laiche», Istanbul e Ankara, lo hanno fortemente premiato col voto.

Non a caso: non v’è dubbio che Erdogan è un politico di razza, possiede fiuto e carisma, doti essenziali per un leader populista. L’economia nazionale, del resto, nonostante l’enorme inflazione, ha compiuto indubbi progressi e il reddito pro capite è oggi più alto che nel passato. Di certo la Turchia accentuerà la dipendenza del potere politico da quello religioso (Erdogan ha proposto di potenziare le scuole degli «inam»).

Fra le intenzioni di Erdogan c’era da sempre l’ingresso della Turchia nella Unione Europea. Oggi non poche nazioni dell’Unione, soprattutto Francia e Germania, ne sono preoccupate, soprattutto per la spietata repressione dei curdi. Il rapporto tra Turchia e Ue è oggi più problematico, anche dopo la dichiarazione di Erdogan in merito alla condanna europea della repressione di Gezi Park: «Non riconosco il parlamento di Strasburgo». E ancor più per il recente riconoscimento da lui fatto di Hamas come «partito politico che non fa terrorismo» e la condanna delle «atrocità di Israele».

Ma la situazione non è facile: la Turchia, con un esercito che oltrepassa il milione di uomini, secondo solo a quello degli Usa, fa parte della Nato e costituisce un base importante per ogni intervento occidentale nel Medio Oriente. D’altra parte la Nato era un frutto della Guerra Fredda, ora la situazione è così mutata, che le stesse finalità dell’alleanza non sono più quelle di prima. E di certo la Turchia prepara piani di espansione in Europa, contando sulle nazioni islamiche del cosiddetto «dorsale verde» ( dalla Bosnia all’Albania e Kosovo, sino alla Tracia orientale).

L’accentuazione dell’integralismo islamico da parte di Erdogan allontana di certo l’ingresso in Europa. Un ingresso, d’altronde, che tutti i principali studiosi di geopolitica ritenevano ingiustificato. Anzitutto per motivi geografici. Un grande storico dell’Europa come Jacques Le Goff (da poco scomparso) ha osservato che se la Turchia dovesse entrare nell’Unione europea, allora dovrebbero entrarci anche le nazioni del medio oriente, compreso l’Irak.

Ma le ragioni più valide per negare l’ingresso della Turchia sono di carattere culturale. Si tratta di uno stato la cui popolazione è, al 99 %, di religione islamica. Paese ad alta crescita demografica, con i suoi 75 milioni di abitanti sarebbe la seconda nazione dell’Ue dopo la Germania. E potrebbe, in base alla libera circolazione di Schengen, riempire di suoi lavoratori tutti i paesi europei.

La nostra epoca vede dovunque una riaffermazione dei fattori culturali (etnia, tradizione, religione) nei rapporti politici. Ora è un dato storico che i turchi, apparsi sulla scena nell’XI secolo, per settecento anni sono stati un pericolo per l’Europa. Difficile pensare che questa lunga tradizione islamica non abbia lasciato i suoi segni, soprattutto quando il nuovo presidente la rivaluta e la ripropone.

L’Europa ha il dovere, con trattati e alleanze, di stabilire rapporti di pace e collaborazione con la Turchia. Quanto al suo ingresso nella Ue, è altra cosa. Nessuno lo ha detto meglio dell’allora cardinale Ratzinger, nella sua intervista al «Figaro Magazine» del 2004: «Storicamente e culturalmente la Turchia ha poco da spartire con l’Europa, ha sempre rappresentato nel corso della storia un altro continente, in contrasto col nostro. Sarebbe perciò un grande errore inglobarla nell’Unione Europea». Occorre invece rispettare le diverse identità dell’una e dell’altra.

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