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“Le pillole della felicità” di David Herzberg

“Contrariamente a quanto si sarebbe potuto credere all’inizio, la storia dei farmaci psichiatrici non è una storia delle scoperte scientifiche e delle loro conseguenze…Non dobbiamo parlare di molecole – meprobamato, diazepam, fluoxetina – ma degli sforzi di tante persone diverse che hanno trasformato questi composti chimici in Miltown, Valium e Prozac. Molti americani – ricercatori, medici e pazienti: pubblicitari, lobbisti ed esperti di pubbliche relazioni, avvocati dei consumatori, crociati antidroga, femministe e fruitori dei media popolari – hanno contribuito a modellare i significati dei tranquillanti e degli antidepressivi e a trarre vantaggio dalle opportunità personali e politiche da essi offerte”. Con queste parole David Herzberg chiude il suo libro Le pillole della felicità, da poco uscito ed edito in Italia dalla casa editrice “L’asino d’oro”.

Herzbeg è professore associato e direttore di ricerca presso il dipartimento di Storia dell’Università di Buffalo (New York). E’ autore di numerosi contributi scientifici sul consumo di farmaci e di psicofarmaci in particolare. In questo senso Le pillole della felicità, rappresenta un compendio storico documentatissimo della nascita e dell’affermarsi degli psicofarmaci – dal Miltown negli anni Cinquanta, al Valium negli anni Settanta, al Prozac negli anni Novanta –,  nel libro si ricostruisce un affresco ricco e avvincente di un momento importante della storia culturale americana ( traslata come spesso succede in Europa in un breve lasso di tempo), incentrato sulla ricerca della felicità nelle fasce sociali medio alte.  Il “racconto” storico si dipana dal processo di commercializzazione della medicina nel clima consumistico dell’immediato dopoguerra; il ruolo di industrie farmaceutiche e pubblicitari nella trasformazione dei farmaci in semplici beni di consumo. Lo sviluppo della “cura-fai-da-te”, la difficile distinzione tra psicofarmaci (per le persone dabbene) e droghe (per le classi disagiate), da parte dei crociati della guerra antidroga: le drammatiche campagne delle femministe contro i pericoli di dipendenza da Valium, le mirabolanti promesse lanciate dalle nuove neuroscienze non solo di debellare la depressione ma anche di permettere a ciascuno la costruzione di una personalità a piacere. Una storia della scienza medica e delle sue ripercussioni nella vita individuale e sociale rielaborata con la “tecnica” del racconto di estrema efficacia e interesse.

L’idea che le pillole possano restaurare la personalità è ormai un luogo comune, di cui è impregnata tanto la cultura popolare, quanto quella medica. Nel 2001 la multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline annunciò urbi et orbi, mediante una massiccia campagna pubblicitaria negli USA ( le leggi lo consentono), la lieta novella per  i “dieci milioni di persone che vivono in stato di eccessiva e incontrollabile preoccupazione, ansia, tensione, irritabilità, agitazione e disturbi del sonno”: era finalmente a disposizione, frutto, ovviamente, della più avanzata ricerca, il rimedio sotto forma di Paxil, un antidepressivo. Nella pubblicità su Newsweek (pecunia non olet), il gigante farmaceutico suggeriva a quelli che soffrivano di “ansia cronica” di parlare subito col medico curante del Paxil, il farmaco miracoloso che non produce assuefazione. Il claim proseguiva così: “Scoprirai allora una persona che non avevi mai visto prima…Te stesso”. L’immagine che accompagnava la didascalia mostrava una donna dall’aspetto preoccupato che cammina  a passi decisi per la strada. La scritta a  caratteri cubitali prometteva: “La tua vita ti aspetta”.

La prima medicina “psichiatrica”, definita  tranquillante minore, appare  negli USA agli inizi degli anni cinquanta.  Nome commerciale Miltown il cui principio attivo è il meprobamato, in Italia conosciuto come Quantil, nel volgere di pochissimi anni l’uso di farmaci simili raggiunse un primo picco già nel 1973, quando furono prescritte oltre cento milioni di ricette solo per il Valium, il farmaco successore del Miltown.  Il principio attivo del Valium è il diazepam e nel corso degli anni settanta ha assunto lo status di farmaco blockbuster  ( vendite per oltre un miliardo di dollari ), una mano santa per l’industria farmaceutica che aveva trovato finalmente il santo graal. Ansia, depressione, disturbi vari non meglio definiti, pigrizia, insofferenza, passano da stati d’animo a malattia conclamata e, quindi, ricerca di terapia farmacologica da contrasto.

“Questa storia – scrive David Herzbergmostra come la diffusione della cultura consumistica non soltanto moltiplicò il numero dei singoli acquirenti ma, trasformando i medici e i pazienti in consumatori, rimodellò alcune istituzioni sociali, ad esempio il sistema medico. Come le case nei quartieri residenziali, le nuove auto e le lavatrici – continua Herzberg -, la medicina divenne parte di un nuovo sogno americano consumistico che riplasmò il modello di vita del ceto medio e della stessa felicità”.

Agli albori degli anni Ottanta, si assiste ad una vera e propria escalation della “depressione” a malattia emotiva più comune d’America e in contemporanea negli scaffali delle farmacie compare il Prozac  (principio attivo fluoxetina) e una nuova generazione di antidepressivi come volto pubblico della psicofarmacologia degli anni  Novanta. I divulgatori scientifici e i venditori di medicine promossero il nuovo farmaco miracoloso come soluzione alla crisi del Valium. Il Prozac,  dicevano, non provoca dipendenza, ha pochi effetti collaterali (sic!), e come stimolante libera anziché calmare le donne che (ancora troppo poche) lo assumono.

Herzberg sottolinea più volte che lo scopo del suo lavoro non è  quello di esaltare i tranquillanti e gli antidepressivi come strumenti di salvezza forniti dalla tecnologia, né di condanna come narcotici capaci di ridurre in schiavitù, ma piuttosto di capire perché queste  vicende e non altre hanno definito la collocazione dei farmaci nella cultura americana. In altre parole è la storia di come le persone hanno trasformato il mondo della medicina, del commercio e della cultura con i loro sforzi di dar senso a un’importante tecnologia, e di trarne vantaggio.

E la storia continua. In queste ore è sotto accusa in America un altro farmaco antipsicotico, si tratta di Abilify (parente stretto della torazina), indicato per la schizofrenia ma spacciato e venduto come antidepressivo. Acquistabile anche in Italia, dietro presentazione di ricetta medica, l’Abilify  ha fruttato alla multinazionale Otsuka che lo produce  6,9 miliardi di dollari (5,5 miliardi di euro) nell’ultimo anno, più di tutti gli altri principali antidepressivi messi insieme. Il problema è che nessuno sembra sapere come funziona, né quale sia la sua reale efficacia nella cura della depressione. La Food and Drug Administration (Fda), l’ente americano che regolamenta i farmaci, ha certificato che l’azione terapeutica di Abiliy è “sconosciuta”.  Praticamente non si capisce a che serve, ma grazie ad abili strategie di marketing e comunicazione che ne propagandano i presunti benefici nei confronti della depressione, i produttori sono riusciti a vendere un farmaco indicato per la cura di gravi malattie come la schizofrenia e la sindrome bipolare che colpiscono rispettivamente solo l’1 e il 2,5% della popolazione statunitense, a fasce di popolazione ben più ampie e numerose.  La  pubblicità che accompagna il farmaco in America recita: “Abilify è un termostato che ristabilisce l’equilibrio mentale”. Si chiama “approvazione strisciante” questa tecnica, o per meglio dire trucco dell’industria farmaceutica, che consiste nell’ottenere luce verde dall’Fda per un farmaco destinato ad una cura specifica e poi, attivando lobbyes, giornalisti, professori e politici, fare pressione affinché sulla scia del primo uso ne vengano autorizzati molti altri. Altro espediente che ha favorito l’industria farmaceutica consiste nel richiedere il placet agli enti regolatori di questi farmaci come sostanze “supplementari”, vale a dire come parte di un cluster. Le vendite sono triplicate ed è difficilissimo stabilire se i farmaci presi singolarmente funzionano oppure no.  Il paziente assumendoli insieme ad altri non è in grado di valutarne l’effetto specifico. Inoltre chi assume abitualmente quattro o più psicofarmaci ha buone possibilità di essere inserito nei programmi federali finanziati dal governo, con una spesa che così finisce per ricadere su tutti i contribuenti americani.

Ma siamo, come si dice, in piena globalizzazione.  Ecco un esempio di “informazione” scientifica italiana: “Non buttiamoci giù, quasi 7,5 milioni di italiani soffrono di depressione. In media passano circa 2 anni perché la diagnosi sia chiara e nel 47% dei casi la malattia si cronicizza. In arrivo nuovi farmaci”, così il titolo di un take Ansa del 16 ottobre 2014.  Il “pezzo” così prosegue: Silente e spesso sottodiagnosticata, la depressione colpisce 7,5 milioni di italiani, il 12,5% della popolazione. In media passano due anni prima che la diagnosi sia chiara, un lasso di tempo troppo lungo e che secondo gli esperti in alcuni casi può rivelarsi anche fatale: nel 47% dei casi infatti il disturbo si cronicizza e porta a un peggioramento significativo della qualità di vita. I pazienti che ricevono la diagnosi, poi, in 7 casi su 10 attendono un anno prima di ricevere un trattamento farmacologico adatto e solo il 40% di loro risponde in maniera soddisfacente alla terapia e non presenta ricadute.

E’ quanto emerso a Roma al convegno “Depressione male oscuro della nostra società: dai bisogni alla pratica clinica”. I numeri sono sicuramente sottostimati – spiega il professor Emilio Sacchetti, presidente della Società italiana di psichiatria (Sip) – la depressione è la prima causa di disabilità ma il difficile inquadramento del problema genera ancora molta confusione.

Purtroppo una grande percentuale di pazienti non assume i trattamenti come dovrebbe e di conseguenza l’efficacia ne risente,  sottolinea il presidente Sip, nonostante vi siano molecole efficaci e ben tollerate, come l’agomelatina, capostipite di una nuova classe di antidepressivi, che, insieme al sostegno psicoterapeutico, sembrano essere in grado di migliorare in maniera significativa la situazione in molti casi”. Come dicono gli americani: “Business as usual”.

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