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Petrolio, ecco la vera partita a scacchi tra Stati (con molti bluff)

Il ribasso del prezzo del petrolio, confermato dalla decisione di non tagliare le quote di produzione dei Paesi aderenti all’Opec, assunta il 27 novembre scorso a Vienna, complica ulteriormente lo scenario geoeconomico e geopolitico dell’anno che si sta chiudendo. L’eccesso di offerta determinato dalla raggiunta indipendenza energetica degli Usa e dalla stagnazione dell’economia europea è il fattore scatenante di un più articolato riallineamento geopolitico e geoeconomico.

I BENEFICI PER L’AMERICA

Gli Usa beneficiano a pieno, di certo nel breve termine, della riduzione del prezzo del petrolio: la rafforza dal punto di vista economico interno, della competitività internazionale e delle relazioni verso la Russia.

GLI EFFETTI IN EUROPA

Per l’Europa, invece, si tratta di una boccata d’ossigeno solo temporanea: se da una parte riduce l’onere delle importazioni energetiche, dall’altra rimane fortemente dipendente per i suoi approvvigionamenti, in bilico tra la prosecuzione delle relazioni con la Russia attraverso il progetto South Stream, sospeso da Putin e fortemente osteggiato dagli Usa perché sancirebbe un rapporto di dipendenza strategica, e la prospettiva di importare gas addirittura dagli stessi Usa, sulla base delle previsioni di eccezionale crescita della produzione di shale gas.

I VANTAGGI PER CINA E GIAPPONE

Ad essere davvero avvantaggiati dalla riduzione dei prezzi del petrolio sono le economie di Cina e Giappone, entrambre fortemente dipendenti dall’estero per l’approvvigionamento energetico. Soprattutto ne beneficia il Giappone, che aveva svalutato lo yen del 30% per sostenere l’export, sobbarcandosi un rincaro di identica portata della bolletta petrolifera.

MOSCA PIANGE

Per la Russia, infine, è un colpo basso: già colpita dalle sanzioni degli Usa e della Ue per la riunificazione della Crimea, rischia la recessione economica ed una più generale destabilizzazione politica. Anche la recente caduta repentina del rublo, che ha perso il 6% nella sola giornata del 1° dcembre, secondo fonti russe sarebbe stata opera di attività speculative compiute da fondi esteri. Lo stesso Presidente Vladimir Putin, nel suo discorso di giovedì scorso sullo stato della nazione, non ha nascosto la pesantezza degli attacchi internazionali cui è sottoposta la Russia: ci sarebbe una strategia di contenimento della Russia, su più fronti, che fa rivivere lo scenario da Guerra fredda e riporta alla mente ben più sanguinosi precedenti.

IL RUOLO DELL’ARABIA SAUDITA

Geopolitica e geoeconomia continuano ad intrecciarsi: se in Medioriente continua una sorta di partita a scacchi, sul petrolio si gioca una nuova mano di poker. La decisione di non tagliare le quote di produzione del petrolio, nonostante il prezzo del barile sia in calo dagli inizi di luglio quando il Brent quotava 112 dollari, è stata interpretata come un modo attraverso cui l’Arabia Saudita ha semplicemente assecondato la strategia americane: le loro relazioni sono sempre state solide, sul piano politico e finanziario, fin dai tempi di Roosevelt. Di converso, e con altrettanta convinzione, si è sostenuto che si tratta invece di una manovra con cui il governo di Rijhad manifesta tutta la sua autonomia dagli Usa, cercando di mettere fuori mercato il nuovo competitor, lo shale gas americano.

CHE COSA PENSANO GLI USA

Al tavolo, quest’anno gli Usa si sono dichiarati già serviti dal punto di vista energetico, ampiamente autosufficienti per via dell’eccezionale incremento registrato dalla produzione di shale-gas. Anzi, è stato annunciato che gli Usa sarebbero addirittura pronti a rifornire l’Europa già prima del 2020. Dal punto di vista monetario, poi, ad ottobre si è concluso il Qe3: non vi sarà più l’immissione mensile di liquidità in dollari da parte della Fed che ha sostenuto l’economia reale ed i corsi delle azioni a Wall Street. Già da giugno, infine, il dollaro ha cominciato a rivalutarsi sull’euro, rendendo meno competitivo l’export delle merci americane.

LA BILANCIA DEI PREZZI

In questo contesto, una riduzione del prezzo internazionale in dollari dei prodotti energetici, nella misura in cui si riflette o è addirittura anticipato da una flessione dei prezzi interni statunitensi, non può che bilanciare positivamente la rivalutazione del dollaro. Inoltre, una riduzione dei prezzi del petrolio in dollari riduce il fabbisogno di liquidità internazionale per provvedere alle transazioni ed attenua gli effetti della conclusione del Qe3: la riduzione del prezzo del petrolio deflaziona la richiesta di dollari e quindi rallenta la tendenza all’apprezzamento del biglietto verde.

LE RECONDITE MIRE RUSSE

Per quanto riguarda la Russia, che da tempo è stata ammessa all’Opec come Osservatore permanente, il suo rappresentante non si è opposto alla decisione del 27 novembre, assunta su proposta saudita. Questo silenzio, che poteva sembrare il frutto di una incertezza strategica, è stato prontamente colmato dal commento di Leonid Fedul, vice presidente di Lukoil, secondo cui l’enorme numero di piccoli produttori statunitensi di shale gas farà la stessa fine delle dot.com degli anni Novanta: scompariranno lasciandosi dietro uno strascico di perdite, visto che la loro produzione ha spesso un costo marginale ampiamente superiore ai 70 dollari per barile. Entro il 2016, quando il mercato sarà stato ripulito, il prezzo del greggio potrà risalire. Se dovesse essere così, ed alcune ricerche confermano una ampia diversificazione dei costi dello shale gas a seconda delle aree geologiche di coltivazione, già nel corso di quest’anno molti produttori avrebbero venduto in perdita, accumulando esposizioni debitorie verso il sistema bancario e mettendo a rischio il rimborso dei finanziamenti ottenuti promettendo rendimenti molto elevati, anche dell’8%.

MOLTE INCOGNITE, POCHE CERTEZZE

Se l’Arabia Saudita avrebbe proposto di non tagliare la produzione per accelerare il collasso della bolla dello shale gas, sostenuta solo da prezzi del greggio superiori ai 100 dollari al barile, la Russia si sarebbe limitata a vedere il bluff, in attesa degli effetti finanziari dirompenti: il successo dello shale gas americano si trasformerebbe in un boomerang. Purtroppo, nessuno può davvero sapere come andrà a finire, perché nel caso dello shale gas non esistono statistiche storiche né basi di dati affidabili: è come la corsa all’oro. Ce n’è per tutti, ma solo finché si trova. In ogni caso, suscita perplessità il fatto che, con l’orizzonte al 2040, la produzione statunitense di gas quasi raddoppierebbe rispetto a quest’anno, con una impressionante preponderanza dello shale gas rispetto a tutte le altre fonti che addirittura diminuiscono in termini di produzione effettiva. Non sarà un azzardo, ma il rischio è molto elevato.

LE DIFFERENZE TRA USA E UE

Per quanto riguarda l’Europa, lo scivolamento dell’euro rispetto al dollaro, un processo già in atto da mesi, ha determinato un trasferimento solo parziale all’economia reale della riduzione del prezzo del petrolio. Il  beneficio per l’Europa non è comunque paragonabile all’impatto competitivo che ne riceve l’economia statunitense, che ha raggiunto l’indipendenza energetica e che incorpora pienamente la riduzione di questo fattore di costo dal punto di vista competitivo.

La Russia, in ogni caso, non sembra limitarsi ad una strategia attendista, nella prospettiva che la bolla dello shale gas collassi. Nel giro di pochi giorni, il Presidente Putin ha dapprima annunciato il blocco del progetto South Stream, che tanti ostacoli ha incontrato da parte della Unione europea per ragioni asseritamente regolatorie, essendo prevista la separazione proprietaria delle infrastrutture energetiche di trasporto. Quindi si è recato ad Ankara per offrire al Premier Erdogan di far approdare in Turchia, anziché in Bulgaria, la pipeline che attraversa il Mar Nero, trasformando la Turchia nell’hub energetico del Mediterraneo. In pratica, Mosca offrirebbe alla Turchia il ruolo che questa avrebbe assunto nel progetto Nabucco: naturalmente a fronte del pagamento di un sostanzioso diritto di passaggio del gasdotto.

Magari anche quello russo è un bluff, ma di fatto il blocco del progetto South Stream ha già suscitato una richiesta di compensazioni da parte della Bulgaria, che reclamerebbe dalla Commissione europea il risarcimento del danno, stimato da fonti russe in circa 400 milioni di euro l’anno di mancati incassi. Si assiste ad un paradossale replay delle controversie sui diritti di passaggio in Ucraina, che nascono addirittura ancor prima che la pipeline sia stata costruita: ciò dimostra che gli interessi che ruotano attorno al progetto vanno molto al di là del costo di realizzazione, che vale di per sé oltre 40 miliardi di dollari. La questione è ancora aperta, secondo Bruxelles, ed nfatti il Presidente della Commissione europea ha annunciato che il 9 dicembre si terrà una nuova riunione per fare il punto della situazione. L’Europa continua ad aver bisogno di importare risorse energetiche, ed è divisa: le sue relazioni geopolitiche con gli Usa confliggono con gli interessi geoeconomici che la legano alla Russia.

La disputa sull’Ucraina, resasi critica esattamente un anno fa, quando sia l’Unione Europea sia la Russia si sono dimostrate assai interessate ad attrarla nella propria orbita di relazioni, ha rimesso in moto un contenzioso che sembrava relegato alla Storia, quello dei conflitti imperiali per il controllo dei Balcani e del Medioriente. Dal punto di vista geopolitico, si intravvede un possibile sostegno russo alle mire neo-ottomane della Turchia verso l’area balcanica e quella mediorientale, suscitate dalla reazione al negato ingresso nella Unione europea ed al venir meno della primazia egiziana nel mondo arabo. Il sostegno indiretto all’Arabia Saudita sul piano delle strategie petrolifere rappresenta una ulteriore mossa di Mosca per uscire dall’isolamento, alla ricerca di una comune convergenza nei confronti dellla Cina nel creare un blocco euroasiatico.

L’Europa sta in mezzo, guarda un po’ di qua ed un po’ di là. Gli imperi, invece, esistono ancora.

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