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Amato, Cassese e Prodi tra editoriali, libri e messaggi (autopromozionali?)

Fra le novità di questa dodicesima edizione della corsa al Quirinale – esclusa quindi quella, peraltro assai breve e atipica, che nel 1946 portò nella provvisoria sede di Palazzo Giustiniani Enrico De Nicola, il presidente altrettanto provvisorio della Repubblica appena partorita dal referendum istituzionale del 2 giugno – si può annoverare l’autopromozione, non si sa se più casuale o astutamente volontaria, di almeno tre candidati. E ciò grazie alla loro attività pubblicistica.

Essi sono, in ordine rigorosamente alfabetico, Giuliano Amato, giudice in carica della Corte Costituzionale, più volte presidente del Consiglio e ministro, e tante altre cose; Sabino Cassese, ex presidente della stessa Corte, ex ministro tecnico della Funzione pubblica ed altro; Romano Prodi, ex presidente del Consiglio e della Commissione Europea, e tante altre cose pure lui, universitarie e d’affari.

Di Giuliano Amato è uscito proprio in questi giorni un saggio, per le edizioni del prestigioso Mulino, di sapore o effetto autopromozionale già nel titolo: “Le istituzioni della democrazia – Un viaggio lungo cinquant’anni”. Che sono quelli trascorsi dal quasi settantasettenne autore, dopo gli studi e la laurea, continuando a studiare, insegnando, scrivendo, consigliando, legiferando, governando, controllando la concorrenza e infine giudicando la conformità delle leggi alla Costituzione: comprese quelle da lui predisposte al governo o votate in Parlamento.

C’è in questo poderoso saggio di Amato, di cui escono stralci sui giornali e recensioni tanto autorevoli quanto meritate, tutta la sua nota abilità, o “sottigliezza”, secondo una compiaciuta ma anche un po’ perfida definizione inventata per lui da Eugenio Scalfari negli anni della collaborazione politica con Bettino Craxi. Del quale Amato fu a Palazzo Chigi il vero braccio destro come sottosegretario, fra il 1983 e il 1987, con una competenza giuridica e una lealtà personale, prima della dolorosa rottura consumatasi fra i marosi di Tangentopoli, che Craxi premiò nel 1992 mandandolo alla guida di un governo che lui stesso avrebbe dovuto formare, secondo gli accordi con la Dc guidata allora da Arnaldo Forlani, se non ne fosse stato impedito dai segni premonitori del drammatico coinvolgimento nel ciclone giudiziario chiamato “Mani pulite”.

Chi legge le pagine di Amato, ne spunta e sottolinea passaggi di grande esperienza e profonda dottrina, anche a proposito di temi che potrebbero apparire banali, come il rapporto fra la libertà e le regole,  spontaneamente si chiede, se non ha ragioni personali o politiche di prevenzione, o addirittura di rancore, per quale motivo uno così non sia già stato presidente della Repubblica. E gli siano stati invece preferiti prima Carlo Azeglio Ciampi e poi Giorgio Napolitano, pur validissimi entrambi.

Sabino Cassese in un editoriale da costituzionalista sul Corriere della Sera, seguito ad un altro nel quale aveva già auspicato la restituzione della figura del presidente della Repubblica al ruolo di “equilibrio” fra i poteri, dopo la fase politicamente propulsiva imposta dalle circostanze a Napolitano, ha ulteriormente alleggerito domenica il ruolo del nuovo capo dello Stato agli occhi di chi ne teme invadenze o ingombri. In particolare, egli ha sottolineato l’importanza delle riforme istituzionali ed elettorale in corso d’opera parlamentare, destinate – una volta completate – a rendere quasi pleonastiche le competenze del presidente della Repubblica. Dovrebbero infatti prevedersi legislature stabili e presidenti del Consiglio nominati dal capo dello Stato esclusivamente in base ai risultati delle urne. Musica, forse, per le orecchie di Renzi e per le sue aspirazioni ad una propria, forte leadership politica, indipendentemente dagli umori o altro al Quirinale.

Musica invece per le orecchie degli euroscettici di destra e di sinistra potrebbe trovarsi nel commento che Romano Prodi ha dedicato, sul Messaggero di domenica, alle prospettive che potrebbero crearsi a Bruxelles dopo le imminenti elezioni greche, quando si riproporrà in termini più stringenti il problema dei rapporti con i Paesi più indebitati dell’Unione, fra i quali naturalmente l’Italia.

Contestato sinora come un europeista troppo ortodosso da grillini e leghisti, e per quanto mostri pubblicamente di non essere interessato al Quirinale dopo la cocente delusione procuratagli nel 2013 dal suo stesso partito con cento e più traditori nel segreto dell’urna, Prodi ha tenuto a mandare un messaggio per niente arrendevole alla “grande” Germania e alla sua testarda cancelliera. Egli ha ricordato ad entrambe, lasciando forse credere di poterlo gridare altrettanto forte da presidente della Repubblica, “i danni che nella storia sono stati provocati da una politica che ha imposto pesi non sopportabili sulle spalle delle popolazioni dei paesi debitori”. Come peraltro fu la stessa Germania dopo le sconfitte belliche del secolo scorso.

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