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Paolo Savona: ecco come evitare allo Stato guazzabugli con i derivati

Rappresentano lo strumento finanziario al centro della crisi economica mondiale del 2007-2008.

Cosa sono i derivati

Concepiti come prodotti complessi per il mercato di capitali globale, i derivati non sono titoli con un valore intrinseco. Lo ricevono da altri beni monetari o reali a cui restano agganciati nelle variazioni di prezzo. Consistono in vere e proprie previsioni su quotazioni di titoli, tassi d’interesse e di cambio, costi di merci e materie prime.

Se teoricamente essi possono fornire una copertura verso rischi di mercato, nella prassi è prevalsa una fisionomia speculativa. Perché troppe volte le “scommesse” che erano alla loro base si sono rivelate fallaci. Provocando esiti devastanti per milioni di risparmiatori in buona fede.

Privilegiate le banche speculative rispetto a quelle commerciali?

La loro impronta è tornata di attualità anche in occasione degli stress test realizzati dalla Banca Centrale Europea nei confronti degli istituti creditizi dell’Euro-zona.

Un’iniziativa aspramente criticata dall’economista Antonio Rinaldi “perché gli effetti dell’esposizione delle banche in derivati sono stati sottovalutati rispetto all’erogazione dei normali prestiti commerciali”. Con grave danno, rileva lo studioso, per chi ha fatto il proprio mestiere a fronte di coloro che hanno privilegiato l’attività finanziaria speculativa.

Un macigno da 160 miliardi di euro?

Tuttavia, spiega Rinaldi, la vera “bomba a orologeria” riguarda l’esposizione in derivati dello Stato italiano. Prodotti acquistati negli anni Novanta e la cui entità “non è del tutto chiara”. Elemento tanto più controverso, rimarca l’economista, visto che ora le grandi banche d’investimento internazionali chiedono il conto.

La cifra di 160 miliardi di euro prospettata da Rinaldi è emersa in un’inchiesta giornalistica che Milena Gabanelli ha intrapreso sul Corriere della Sera.

Garanzie onerose sui derivati

Nel dicembre 2014 la conduttrice di Report ricostruisce le tappe di una vicenda tuttora nebulosa: “Nel bailamme del ricambio a Palazzo Chigi tra Silvio Berlusconi e Mario Monti durante l’autunno 2011, il Tesoro italiano ha pagato oltre 2 miliardi di euro alla banca americana Morgan Stanley. Risorse pubbliche utilizzate per chiudere in anticipo un derivato stipulato anni prima dal Ministero dell’Economia e Finanze. E le cui previsioni non erano andate a buon fine”.

Nel 2013, scrive la giornalista, un’indagine riservata della Corte dei Conti mette in luce cifre notevoli e potenziali grosse perdite per l’Erario. La risposta del Tesoro arriva con la Legge di stabilità per il 2014: “Lo Stato potrà fornire garanzie anche sui derivati nuovi, oltre che su quelli già stipulati”. Garanzie che, al contrario del passato, devono basarsi su liquidità in contante “congelata presso gli istituti creditizi”. A cui non basta più la promessa verbale del governo.

La firma del Corriere quantifica tale impegno finanziario in 8 miliardi di euro. Cifra che contribuisce ad alimentare un putiferio nel mondo politico e a far bocciare il provvedimento: “Ciò non elimina il fatto che soltanto nel 2013 abbiamo già pagato 3 miliardi di sui derivati. E che rischiamo 34 miliardi di perdite totali”.

Le spese enormi delle Regioni

Un mese prima con l’articolo “L’intervento del dottor Jekyll” Gabanelli aveva affrontato il tema dei derivati contratti dalle Regioni italiane in gran parte con banche estere del calibro di Deutsche Bank, Citi e Bnp Paribas.

Un volume di risorse da lei stimato in una decina di miliardi di euro e che “non aveva trovato riscontro in termini di convenienza per i nostri enti locali”.

Derivati come garanzia contro l’aumento dei tassi di interesse

Le sue argomentazioni hanno provocato la replica del portavoce del Ministero dell’Economia e Finanze Roberto Basso. Il quale sul Corriere della Sera spiega come la natura dei contratti derivati firmati dal Tesoro sia assimilabile a un’assicurazione contro il rischio di rialzo dei tassi d’interesse sui titoli del debito pubblico.

Tassi che “fino a pochi anni fa viaggiavano a livelli molto superiori rispetto a oggi”. La molla che ha spinto le istituzioni governative a stipulare quegli strumenti finanziari – che hanno un costo come tutte le polizze di garanzia – era dunque “neutralizzare il pericolo di un’impennata tale da mettere a repentaglio la tenuta dei conti pubblici”.

Totale trasparenza sui derivati stipulati

Ragionamento cui Gabanelli ha risposto chiedendo di rendere pubblici i contratti sottoscritti, il titolo di Stato cui si riferiscono, le banche erogatrici dei derivati, i profitti e le perdite annuali del Tesoro per ogni operazione finanziaria.

Una voce inascoltata

A fianco di una necessaria iniziativa di trasparenza, forse è il caso di recuperare le riflessioni degli studiosi che da tempo hanno messo in guardia dall’adozione di simili prodotti finanziari ad alto rischio.

A partire da Paolo Savona, recente protagonista di un’audizione ad hoc presso la  Commissione Finanze della Camera dei Deputati presieduta da Daniele Capezzone.

I prodotti derivati, rileva lo studioso, costituiscono uno strumento finanziario utile ma difficile da governare. Complessità provocata da “ignoranza mescolata a malafede, mancanza di governance adeguata di istituzioni bancarie e finanziarie, regimi di cambio incoerenti con le regole del commercio mondiale, scissione tra capitalismo reale e speculativo”. Non tenere nella giusta considerazione il problema, è la sua convinzione, ha creato seri danni agli istituti creditizi italiani soggetti agli stress test della Bce.

Una ferita ai principi democratici e liberali

A rendere problematico il quadro, rimarca l’ex ministro dell’industria, è la molteplicità dei rischi legati all’acquisizione di derivati. Vi sono i pericoli connessi ai cicli di mercato, ai fallimenti di chi ha emesso lo strumento finanziario, alle procedure difettose, alle violazioni di norme, alla perdita di reputazione.

Se il rischio che si realizza non corrisponde all’ipotesi o alla previsione originaria – rimarca l’economista – la copertura risulta alterata. È per tale ragione che i venditori sleali interessati ad accrescere le commissioni incassate sui contratti derivati non rendono coscienti i risparmiatori di tutti i pericoli. Ma li informano esclusivamente dei vantaggi che possono ricavare se i rischi prospettati all’inizio trovano conferma nella realtà. Per non parlare delle truffe legate alla vendita di un derivato complesso contenente titoli “spazzatura”. La loro opacità aumenta pertanto con il crescere della loro complessità. 

A ciò si aggiunge che “raramente i direttori, amministratori delegati e presidenti possono conoscere i rischi effettivi riguardanti la loro banca o azienda. Analogo fenomeno si registra tra gli amministratori pubblici e i responsabili degli enti di controllo”. Per questo motivo lo studioso non esita a considerare le perdite in derivati dello Stato “una violazione del principio democratico della ‘No taxation without representation’”.

L’analisi empirica

Le argomentazioni critiche dell’economista sono frutto di una lunga riflessione sul fenomeno all’origine della tempesta finanziaria del terzo millennio.

Già nel 1996 l’ex ministro aveva rimarcato come “una parte dei derivati fosse costituita da moneta che le banche centrali prima o dopo avrebbero dovute servire”. E nel 2000 avvertì che “gli enti locali stavano creando derivati complessi di dubbio contenuto”. Al punto che l’ex capo del Tesoro Giulio Tremonti giunse a proibirne l’uso.

Ultimo capitolo ricostruito dallo studioso è rappresentato dalla bufera derivati che nel 2013 coinvolse il Monte dei Parchi di Siena: “Esempio di ignoranza e assenza di governance interna del cliente e degli organi di controllo, unito a scarsa informazione resa dal venditore”. 

Quali vie d’uscita?

Per affrontare tali incognite Savona prefigura un ventaglio di ricette.

Nell’ambito privato propone un’alternativa netta: “Proibire l’utilizzo dei derivati a chiunque o permetterlo liberamente ai soggetti che operano esclusivamente con fondi propri e in piena trasparenza”. Una strada mediana e ragionevole a suo giudizio è consentirne il ricorso se venditori e acquirenti stabiliscono regole limpide di governance e valutazione del rischio.

Più radicale il punto di vista sul comparto pubblico: “Non dovrebbe essere autorizzato a contrarre derivati per l’elevato pericolo di perdita di risorse collettive”. A meno che, conclude lo studioso, non venga creato subito un adeguato “fondo riserva” e un organo di vigilanza per rimuovere l’opacità, ammetterne la stipula e monitorarne l’evoluzione anche con una sezione autonoma della Corte dei Conti o della Consob.

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