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Mafia Capitale, tra convivenza e connivenza

Sono ormai molti i giorni che sono stati dedicati ad apprendere, ragionare e discutere su quella che è stata definita “Mafia Capitale”.
Una primissima considerazione: nessuna sorpresa. Una seconda considerazione: di cosa si tratta? Una terza considerazione: cosa fare prendendo spunto da questa aggrovigliatissima ed apparentemente singolare vicenda? Occorre pertanto cercare di dare tre risposte.

Non vi è stata – almeno per quanto mi riguarda – nessuna sorpresa proprio perché non è da condividere l’idea della eccezionalità della vicenda romana.
Siamo stati e siamo infatti in presenza di una vicenda che conferma quanto è rilevabile anche in riferimento ad altre vicende concernenti il rapporto tra criminalità cosiddetta organizzata e attività complessivamente sociologica e politica.
È infatti del tutto naturale che la specificità romana si colga quasi esclusivamente nell’uso dell’idioma “romanesco”, così come era stata notata la specificità dell’idioma “siciliano” di quella che si riteneva essere la mafia di Cosa Nostra; la specificità dell’idioma “napoletano” dei cosiddetti Casalesi; come del pari il tipico idioma “calabrese” delle diverse ‘ndrine.

Sarebbe pertanto un errore ritenere che si tratti di un fatto linguistico e non invece di un fatto ancor più generale, che prende di volta in volta il dialetto locale nel rapporto tra la criminalità organizzata di uno specifico luogo e la vita sociale e politica del luogo medesimo.
Alla domanda di cosa si tratti occorre infatti rispondere che si tratta di una normale vicenda di convivenza, e non necessariamente di connivenza tra gli ambienti politici e amministrativi e le organizzazioni criminali operanti su un dato territorio dall’altro.
La distinzione tra convivenza e connivenza costituisce infatti un parametro culturale essenziale per cercare di orientarsi in riferimento a Mafia Capitale anche da un punto di vista costituzionalistico.

La convivenza infatti costituisce un atteggiamento specifico di quanti sono consapevoli che esiste una attività anche malavitosa dalla quale si possono peraltro trarre vantaggi specifici anche senza che vi sia una vera e propria trattativa tra gli esponenti politici e amministrativi da un lato e la criminalità organizzata dall’altro.
Siamo infatti in presenza di utilità che attengono o al denaro o al potere, quando questi due obiettivi siano assunti come essenziali per chi svolge un’attività politica o amministrativa.

Pagamento di questa o quella organizzazione di sostegno ad una attività politica; campagne elettorali normalmente molto costose; partecipazione a vario titolo a cosiddette primarie o voti di preferenza nelle elezioni politiche in senso stretto; procedure di assegnazione di lavori mediante appalti o in via diretta.
Se l’attività politica e amministrativa vivono pertanto in modo significativo di fabbisogno di denaro e di strumenti di potere, anche le organizzazioni criminali con le quali si convive possono essere utili per chi esercita attività politica o amministrativa pur senza che vi sia un vero e proprio rapporto di connivenza tra queste e quelli.

La terza risposta è pertanto molto più complicata di quanto non sia allorché si voglia ridurla esclusivamente a fatti giurisdizionali.
In questo caso siamo infatti in presenza di quella straordinaria zona grigia tra attività politica e amministrativa da un lato e attività criminosa dall’altro che costituisce la base stessa del principio di responsabilità politica e amministrativa per chi esercita le prime due attività, e il principio di responsabilità penale per chi opera nell’ambito di una vera e propria organizzazione criminale.

La risposta alla terza domanda pertanto dovrebbe vedere una contestualità di risposte politiche e amministrativa da un lato e giudiziarie dall’altro, a differenza di quel che è dato constatare sia avvenuto anche in riferimento agli insegnamenti che la vicenda romana dovrebbe pur significare.

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