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Mattarella, botta e risposta fra Alfio Caruso e Francesco Damato

Gentile Redazione,

nella rubrica di Francesco Damato del 27 ottobre, dedicato alle amarezze di Sergio Mattarella, il contenuto del mio libro “Da Cosa nasce Cosa” su Bernardo Mattarella è definito diffamatorio. Perché? In base a quale sentenza?

Damato scrive anche che nel libro – pubblicato nel 2000 e non nel 1980 – “si ritrovano, fra l’altro, sospetti e insinuazioni sui rapporti fra Bernardo Mattarella e la mafia comparsi nel 1965 in un saggio di Danilo Dolci costato all’autore una condanna per diffamazione”. Tra i miei tanti peccati ho pure quello di mai aver letto i libri di Dolci, come risulta dalla loro assenza nella corposa bibliografia di “Da Cosa nasce Cosa”.

Cordiali saluti

Alfio Caruso  

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Risponde Francesco Damato

Il carattere diffamatorio del libro di Alfio Caruso “Da Cosa nasce Cosa”, pubblicato dall’editore Longanesi nel 2000, e non nel 1980, come precisa l’autore correggendo una inesattezza contenuta in una cronaca giudiziaria del quotidiano Il Fatto dalla quale è partito il mio “Graffio” del 27 ottobre scorso, non deriva certamente da una sentenza. In questo ha ragione Caruso, che colgo l’occasione per salutare amichevolmente, se è lo stesso collega con il quale ho lavorato nel Giornale appena fondato da Indro Montanelli, nel 1974 e anni immediatamente successivi.

La diffamazione nei riguardi della memoria del defunto democristiano Bernardo Mattarella, partecipe dei primi governi di Aldo Moro, che non soleva scegliere i suoi ministri alla leggera, deriva solo dalla percezione del figlio dello stesso Mattarella, l’attuale presidente della Repubblica. E dei nipoti, che hanno promosso con lui una causa pendente presso il tribunale civile di Palermo.

Lasciamo almeno al capo dello Stato il diritto di sentire lesa la memoria del padre dal libro di Caruso. E a Caruso il diritto, per amor del Cielo, di non ritenere fondata la percezione dei promotori della causa e di attendersi un verdetto a lui favorevole. Lo stabilirà l’unico cui compete, almeno in questa fase processuale: il giudice Enrico Catanzaro, che ha già formulato una sua proposta di sostanziale mediazione, su cui le parti hanno tempo per pronunciarsi sino al 23 novembre. Questo, almeno, ha riferito la cronaca giudiziaria del Fatto: un giornale dal quale mi capita spessissimo di dissentire, ma che riconosco particolarmente informato di affari di cosiddetta giustizia. Tanto informato da essermene fidato, anche nella parte relativa agli elementi del libro riferibili a scritti di Danilo Dolci, da cui Caruso invece tiene a precisare di non avere attinto nulla.

Non riesco allora a capire come e dove nasca la proposta del giudice di inserire nel sito telematico della casa editrice Longanesi un richiamo alle condanne subìte da Dolci, in alternativa alla richiesta dei promotori della causa di ritirare il libro di Caruso dalle librerie, se e dove è ancora reperibile.

Se questa nostra polemicuzza servisse a rivitalizzare le vendite del libro, e se Caruso fosse davvero il collega del Giornale che ricordo negli anni fortunati della fondazione e della difficilissima, quasi eroica diffusione, quando a comperarne le copie nelle edicole si rischiavano insulti e minacce, data la conformistica convinzione che fosse inevitabile e insieme anche opportuno il cosiddetto compromesso storico fra democristiani e comunisti, anche nella variante anticipatrice della “solidarietà nazionale” attorno ai governi monocolori dc di Giulio Andreotti, sarei personalmente contento  per lui. Specie in questi giorni, in cui ci ha lasciati Mario Cervi e si ricordano, per partecipazione diretta o per sentito dire, le fatiche che ci costarono quell’impresa editoriale, professionale e civile davvero controcorrente, come si chiamava quella rubrica di prima pagina alla quale Montanelli dedicava quasi ossessivamente le sue riflessioni, coinvolgendoci tutti nella segnalazione di fatti, cose e persone che lo aiutassero a partorire il consueto e felice corsivo del giorno.

Sarei contenuto per Caruso, pensate un po’, anche a costo di contribuire involontariamente all’amarezza filiale, e perciò comprensibile, ripeto, del capo dello Stato.

Francesco Damato

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