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Troppe cautele a definire islamico il terrorismo dell’Isis

C’è solo una cosa peggiore dell’abuso dell’Islam nelle polemiche sulla strage di venerdì scorso a Parigi. Un abuso che ha purtroppo toccato il suo apice nel titolo “Islam assassino” sfuggito – spero – al Giornale sulla prima pagina di domenica. Un titolo, ben più pesante dei “bastardi islamici” di Parigi contestato a Maurizio Belpietro su Libero. Un titolo che Indro Montanelli, fondatore del quotidiano ora posseduto dalla famiglia Berlusconi e diretto da Alessandro Sallusti, non avrebbe sicuramente permesso, non foss’altro per non darla vinta alla toscanaccia Oriana Fallaci. Che lui, toscano non meno doc di lei, leggeva sempre con le pinze. Non gli piaceva il giornalismo troppo “enfatico”, come diceva di quello sopra le righe.

Peggiore dell’abuso è l’omissione. Evitare cioè di usare quella parola, sia nella versione del sostantivo Islam sia nella versione dell’aggettivo islamico, per non chiamare le cose con il loro nome. Come si fece a lungo negli anni italiani di piombo, quando si voleva che la violenza dovesse essere solo nera, cioè fascista, nera come la bandiera del Califfato stragista dei nostri tempi, e le brigate rosse erano viste come il travestimento denigratorio della sinistra eseguito da chissà quale settore, deviato o no, dei servizi segreti, magari americani.

Il massimo che hanno concesso fior di intellettuali è di chiamare islamista, anziché islamico, il terrorismo praticato da chi uccide gridando che “Allah è grande”. Islamista è stato curiosamente anche l’aggettivo usato sul Corriere della Sera dal professore Ernesto Galli della Loggia, che pure ha scritto uno dei migliori e più ragionati editoriali sulla tragedia parigina e, più in generale, sulla guerra dichiarata e condotta dallo Stato Islamico oltre i suoi troppo indefiniti e perciò ancora più temibili confini.

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Galli della Loggia ha centrato il problema dell’Islam forse più genuino, che noi chiamiamo moderato, incapace di contrastare quello radicale e fanatico, che peraltro ammazza più islamici di quanti l’Isis accusa ebrei, americani ed altri “nemici” di uccidere. Una incapacità, quella dell’Islam moderato, che l’editorialista del Corriere attribuisce alle origini e natura religiosa del conflitto interno all’Islam ed esportato fuori, contro l’incolpevole Occidente, indebolito dalle sue divisioni, dalle sue incertezze, dalle sue paure, paradossalmente dalla sua democrazia. In nome della quale si compiono qualche volta anche nefandezze, o si sfugge al dovere del realismo. Per cui, per esempio, si storce il naso di fronte al coraggio del presidente della pur democraticissima Repubblica di Francia di sentirsi in guerra, tanto da dovere modificare la Costituzione per avere le mani più libere, anche se pure lui ha ceduto per un po’ al vezzo tartufesco di evitare il termine Islam, chiamandone l’omonimo e preteso Stato con il nome, misterioso e incomprensibile alla gente comune, di “Daesh”. Che non è naturalmente la variante di qualche detersivo alla rovescia. Un nome peraltro neppure utile a nobilitare lo scontro con il nemico, che lo considera offensivo.

Galli della Loggia, nel lamentare e denunciare la suicida incapacità dell’Islam moderato di contrastare davvero la piovra del terrorismo “islamista” ha avuto bisogno purtroppo di usare molte più parole di quelle adoperate non dico dal presidente egiziano al-Sisi ma, non più tardi dello scorso mese di agosto, in una conferenza universitaria vicino a Parigi, dalla regina di Giordania, Rania. Che in sintonia naturalmente con il marito, Abdullah II, aveva avvertito, papale papale, che “il cosiddetto Stato Islamico continua a diffondere la sua ideologia diabolica e i musulmani moderati di tutto il mondo non stanno facendo abbastanza contro i jihadisti”, cioè i terroristi.

Non a caso, del resto, è dalle basi giordane che hanno potuto levarsi gli aerei da guerra francesi per bombardare i comandi e i campi di addestramento, in Siria, dove è stata concepita la strage di venerdì scorso a Parigi.

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Purtroppo anche il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, che pure fu ministro della Difesa quando il nostro Paese partecipò ai bombardamenti della Nato su Belgrado per fermare un genocidio in corso nei Balcani a sfondo anche religioso, ha dato il suo contributo all’abitudine di non chiamare le cose con il loro nome.

Il capo dello Stato, parlando all’Aquila della vicenda parigina e dei suoi risvolti, tanto numerosi quanto tragici, ha un po’ troppo genericamente parlato di “violenza fondamentalista” da contrastare. Ma fondamentalista di che? Di quale natura?  Di quale provenienza? Un presidente della Repubblica, per quanto vincolato dalle forme della diplomazia e tenuto a stare un passo dietro al governo nella gestione della politica estera, pur essendo per dettato costituzionale anche il capo delle Forze Armate, deve parlare per farsi capire non dai soli addetti ai lavori, dagli iniziati, ma da tutti, anche dal pastore abruzzese, per restare nella regione dove ha colto l’occasione per parlare, appunto, di violenza genericamente fondamentalista.

Di messaggi cifrati la gente è francamente stufa, specie quando è costretta dalle circostanze a convivere troppo, e troppo a lungo, con la paura. Dalla quale pochi hanno il coraggio di sottrarsi come il parigino Antoine Leiris, giustamente citato sulla Stampa da Massimo Gramellini per la reazione alla perdita della giovane moglie, fra le vittime dei terroristi islamici. Non vi do – ha praticamente scritto Antoine agli assassini della consorte su Facebook – neppure la soddisfazione di odiarvi perché siete delle bestie, non degli esseri umani. Ben detto, Antoine, anche a costo di essere una delle prossime vittime di queste bestie.

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